L’INGV è stato istituito con il Decreto Legislativo n. 381 del 29 settembre 1999 e il 29 settembre di quest’anno compie quindi 20 anni. Il decreto istitutivo stabiliva che confluivano nel nuovo ente (denominato Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia) l’Istituto Nazionale di Geofisica (ING) e l’Osservatorio Vesuviano (OV), afferenti entrambi al Ministero dell’Università della Ricerca Scientifica e Tecnologica (MURST), nonché i seguenti tre Istituti del CNR: Istituto Internazionale di Vulcanologia di Catania (IIV), Istituto di Geochimica dei Fluidi di Palermo (IGF), Istituto di Ricerca sul Rischio Sismico di Milano (IRRS). Il decreto stabiliva inoltre che l’INGV diventava la sede e doveva fornire supporto a due gruppi di ricerca del CNR: il Gruppo Nazionale per la Difesa dai Terremoti (GNDT) e il Gruppo Nazionale per la Vulcanologia (GNV). Questi due Gruppi, che erano nati come prosecuzione dell’attività del Progetto Finalizzato Geodinamica (PFG), erano sostanzialmente finanziati dal Dipartimento della Protezione Civile (DPC) e promuovevano e coordinavano le ricerche italiane per la valutazione e mitigazione dei rischi sismico e vulcanico, svolte dalle università e dagli enti di ricerca come INGV, OV e gli istituti CNR sopra menzionati. In quei tempi io ero Sottosegretario di Stato per il Coordinamento della Protezione Civile e in precedenza avevo fondato e diretto il GNV. In tale veste ho promosso, d’intesa con il MURST, il decreto legislativo che ha istituito l’INGV. Varie motivazioni erano alla base del provvedimento.
Le ricerche del PFG avevano dimostrato che l’Italia era esposta ad un rischio sismico molto alto, essenzialmente a causa del gravissimo ritardo nell’adozione di una classificazione sismica corretta del territorio nazionale, da cui dipendeva l’alta vulnerabilità sismica degli edifici pubblici e privati e delle infrastrutture. Egualmente alto era il rischio vulcanico per la frequenza delle eruzioni di alcuni vulcani siciliani, per il carattere violentemente esplosivo di quelli campani e per l’elevata densità di popolazione nelle aree ad elevata pericolosità. Negli anni ’80-’90 si erano dovute affrontare crisi delicate per fenomeni di unrest a Vulcano, ai Campi Flegrei e per le eruzioni dell’Etna. Affinare le conoscenze su terremoti e vulcani, sviluppare le reti di monitoraggio geofisico e geochimico, migliorare le tecniche di valutazione dei rischi ai fini di una loro mitigazione, erano divenuti degli obiettivi sociali di primaria importanza in un Paese tanto vulnerabile. D’altra parte, nel corso degli anni era stata verificata concretamente la difficoltà di ottenere dal CNR i mezzi (finanziamenti, personale) necessari per far crescere e sviluppare le ricerche su terremoti e vulcani e rischi relativi. Si pensò che un nuovo ente autonomo che riunisse tutti i soggetti che svolgevano ricerche su questi temi, sarebbe riuscito ad ottenere dal governo (Ministero, DPC) le risorse necessarie.
Questo è poi in effetti avvenuto. In questi 20 anni l’INGV ha sviluppato enormemente le proprie reti di monitoraggio sismico, geodetico e geochimico; ha creato laboratori specializzati di alta qualità; ha aumentato in modo significativo il proprio personale scientifico, garantendogli anche le condizioni per opportuni progressi di carriera; ha sviluppato ricerche di grande qualità, con una produttività scientifica molto elevata. È diventato, insomma, un prestigioso ente di ricerca con una solida reputazione anche a livello internazionale. Credo che nessuno degli enti di ricerca che pure nel 1999 espressero dubbi, preoccupazioni o una vera e propria ostilità al decreto istitutivo dell’INGV, possa oggi dolersi di esserne diventato una Sezione. Altri aspetti sono meno soddisfacenti.
Un obiettivo che si voleva perseguire nel decreto istitutivo era quello di promuovere una stretta collaborazione scientifica tra i ricercatori delle università e quelli del nuovo ente di ricerca. Questo sia per potersi avvalere nell’attività di ricerca di tutte le migliori intelligenze, sia affinché le università, partecipi direttamente della crescita conoscitiva, potessero preparare adeguatamente le future generazioni di ricercatori. Avevamo come riferimento l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) che era riuscito a creare una simbiosi perfetta fra il proprio personale extrauniversitario e quello universitario, che operavano insieme all’interno delle numerose Sezioni INFN create nelle università. È per realizzare questo obiettivo che il decreto legislativo stabiliva che l’attività dell’INGV andava realizzata anche in collaborazione con le Università (art. 2, comma 1) e prevedeva la possibilità di costituire Sezioni INGV presso le Università (art. 5, comma 7). Purtroppo questo obiettivo non è stato perseguito: nei primi anni di vita l’INGV si è chiuso in sé stesso dimostrandosi poco disposto a collaborazioni esterne. I due Gruppi di Ricerca, GNDT e GNV, che mantenevano uno stretto legame con l’Università, sono stati rapidamente cancellati; nessuna Sezione INGV è stata creata presso un’Università, perlomeno non del tipo in perfetta simbiosi come quelle dell’INFN. Altro tema trascurato, pur essendo previsto esplicitamente dal decreto istitutivo (art. 2, comma 1), è quello delle ricerche sul rischio, che avrebbero richiesto che l’INGV si dotasse delle competenze tecniche (ingegneria sismica) necessarie per affrontare le questioni relative alla vulnerabilità delle strutture, magari attraverso convenzioni con centri universitari specializzati. L’INGV si è invece limitato ai soli temi della pericolosità, lasciando così il Paese sguarnito sul fronte socialmente più delicato. Altri soggetti si sono inseriti in questo vuoto, ma rimane il fatto che in Italia pericolosità (sismica e vulcanica) e vulnerabilità (sismica e vulcanica) non sono trattati dalla stessa struttura di ricerca e temo che questo possa avere inciso sulla quantità e qualità dei risultati. A venti anni dalla sua nascita, penso che per l’INGV, diventato ormai un solido ente di ricerca dalla forte reputazione, sia giunto il tempo di riflettere sul proprio ruolo futuro al servizio del Paese.
Perché non aprirsi di più a collaborazioni con le Università?
Perché non superare il limite autoinflittosi della pericolosità, decidendo di giocare quel ruolo decisivo nella valutazione e mitigazione dei rischi di cui l’Italia ha ancora così tanto bisogno?