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Laureata in Scienze Geologiche, è professore Ordinario presso il Dipartimento di Scienze della Terra “Ardito Desio” dell’Università degli Studi di Milano. Vincitrice della prestigiosa Jean Baptiste Lamarck Medal 2022, la medaglia istituita dalla divisione "Stratigraphy, Sedimentology and Paleontology" dell'European Geosciences Union (EGU),  ha coordinato progetti di ricerca nazionali e internazionali. Stiamo parlando della professoressa Elisabetta Erba, esperta di nannofossili calcarei attraverso i quali è possibile definire l’età delle rocce e anche ricostruire, nel tempo geologico, le caratteristiche degli oceani come temperatura, fertilità e salinità delle acque superficiali. Ospite del nostro salotto virtuale, la professoressa Erba ci ha raccontato il suo percorso professionale e la sua passione per le scienze della Terra.

Professoressa, quando è nata in lei la curiosità nei confronti della scienza?

ospiteSin da bambina! Ho da sempre nutrito una forte curiosità nei confronti dell’ambiente circostante. I miei genitori, al tempo, avevano una casa sul lago di Como dove ogni anno trascorrevamo l’estate, da cui si vedeva il massiccio montuoso delle Grigne. Ero estremamente affascinata da queste montagne, le osservavo a lungo chiedendomi come fossero nate e quali fossero i “segreti” di quel suggestivo paesaggio naturale.

Quali sono state le tappe principali del suo percorso di studi e professionale presso l’Università degli Studi di Milano?

Ho frequentato il corso in Scienze Geologiche e durante l’ultimo anno ho condotto la tesi di laurea con la Professoressa Isabella Premoli Silva, tramite la quale ho anche avuto la possibilità di lavorare durante un carotaggio nelle Marche. Ho così potuto studiare un gruppo di microfossili chiamati nannofossili calcarei, attraverso i quali ho datato delle rocce risalenti al Cretacico Inferiore. I nannofossili sono resti di alghe fitoplanctoniche che popolano gli oceani da almeno 200 milioni di anni, dall’equatore fino alle zone polari. Comparse nel Triassico, una volta morte cadono sui fondali sotto forma di polvere bianca, composta da calcite, diventando sedimenti e rocce sedimentarie marine.

L’uso di questi nannofossili è duplice: attraverso il loro studio, infatti, è possibile definire l’età delle rocce e anche ricostruire, nel tempo geologico, le caratteristiche degli oceani come temperatura, fertilità e salinità delle acque superficiali.

Durante il dottorato di ricerca ho portato avanti le ricerche in questo campo, di fatto ero l’unica ad occuparmi di nannofossili calcarei presso l’Università di Milano, dove sono diventata professore associato nel 2000, dopo essere stata ricercatrice per un decennio, e professore ordinario nel 2005 presso il Dipartimento di Scienze della Terra.

Qual è stato il momento più soddisfacente nell’ambito delle sue ricerche?

Una delle esperienze che ricordo con più piacere è stata quella di datare, mediante i nannofossili calcarei, le rocce più antiche recuperate nell’Oceano Pacifico, risalenti al Giurassico. In seguito, affascinata dall’uso di questi fossili piccolissimi, ho studiato l’evoluzione climatica e oceanografica a scala globale, che ha evidenziato perturbazioni ambientali anche più accentuate rispetto a quelle che stiamo vivendo adesso. Nel passato geologico, infatti, si sono verificati cambiamentio ambientali anche estremi, caratterizzati da un forte riscaldamento climatico e da un clima effetto serra, legato ad un eccesso di anidride carbonica (CO₂) in atmosfera e negli oceani. Ad esempio, ho studiato a lungo il cambiamento globale dovuto ad un grande evento magmatico che si è verificato circa 120 milioni di anni fa. Analizzando i nannosfossili nelle numerose sezioni affioranti in Italia e in Europa, ma anche recuperate in pozzi perforati nei fondali oceanici, sono riuscita a comprendere la resilienza dell’ecosistema oceano rispetto ad una catastrofe ambientale, risultato utilizzabile anche per cercare di comprendere quello che sta avvenendo oggi e aiutare a formulare scenari futuri. 

Lei è stata premiata con la prestigiosa Lamarck Medal 2022, cosa ha significato, per lei, questo prestigioso riconoscimento?

Quando ho ricevuto l’e-mail che mi comunicava l’attribuzione del prestigioso riconoscimento sono rimasta stupita anzi, inizialmente avevo il dubbio che si trattasse di uno spam! Poi, verificando il mittente, una commissione europea ben nota a tutti noi geologi, sono rimasta veramente stupefatta: non immaginavo che qualcuno avesse proposto la mia candidatura.

Per me è stato un immenso onore poiché si tratta di un riconoscimento estremamente prestigioso che va anche al gruppo di ricerca dell’Università degli Studi di Milano. Inoltre, la professoressa con la quale mi ero laureata, aveva ottenuto la Lamarck Medal alcuni anni fa: essere riuscita a eguagliare il suo risultato è stato un ulteriore onore.

Ci racconta un aneddoto del suo percorso professionale?

Un episodio che ricordo ancora come se fosse oggi risale alla mia prima partecipazione al progetto internazionale di perforazione scientifica degli oceani: l’obiettivo era il recupero dei basalti più antichi degli attuali bacini oceanici.

A bordo della nave, che ospitava un centinaio di persone, non conoscevo nessuno. I turni di lavoro erano di 12 ore e lavoravo nel laboratorio di paleontologia da mezzanotte a mezzogiorno con un micropaleontologo giapponese e un ricercatore tedesco. 

Era la notte del 12 dicembre 1989, mi svegliai prima del solito, verso le 23, perché sapevo che ci sarebbe stata la luna piena. Ne sono sempre stata affascinata, da bambina ho anche rischiato di farmi molto male: una sera salii su una scala che la mia mamma aveva dimenticato vicino alla finestra e mi lanciai per cercare di prendere la bellissima luna piena che brillava nel cielo nero. Per fortuna il balcone attutì la caduta. 

Bene, quella notte mi ero svegliata appositamente prima per andare ad ammirare la luna piena sull’Oceano Pacifico. Dopo averla osservata a lungo, raggiunsi il laboratorio dove il mio collega giapponese, timidissimo, mi si avvicinò e mi disse “ti devo dire una cosa: stiamo perforando le rocce del Giurassico”.

Era la prima volta, dopo 20 anni di ripetuti tentativi, che finalmente si era arrivati alla crosta oceanica del Giurassico. Fu un’emozione fortissima e organizzammo un “Jurassic Party” sotto la luna piena per festeggiare questo avvenimento eccezionale (ad oggi si tratta dell’unico pozzo dove è stata raggiunta la crosta oceanica più antica). Quella bellissima luna aveva, in un certo senso, benedetto questo grande successo geologico.

Quali sono, secondo lei, i punti forti e quelli deboli del sistema di ricerca in Italia? 

La preparazione universitaria italiana, in genere, è molto buona e il laureato medio italiano, così come il dottore di ricerca, hanno spesso acquisito una conoscenza superiore a molti altri colleghi provenienti da tutto il mondo.

D’altro canto, il problema della ricerca in Italia è il sottofinanziamento, specialmente per la ricerca di base. Purtroppo non esiste un'agenzia italiana di finanziamento, equivalente, per esempio, alla National Science Foundation americana. Quindi nonostante gli ottimi ricercatori, questi spesso sono costretti ad andare all’estero oppure ad avere pochi mezzi per poter sviluppare la ricerca.

I finanziamenti purtroppo non aumentano, cosa che invece accade con le richieste per condurre i progetti. Ne consegue che spesso, soprattutto per coloro che hanno dei laboratori e strumenti scientifici da mantenere, i finanziamenti risultano insufficienti.

Non avere abbastanza fondi per la ricerca è un problema estremamente serio, in quanto inibisce lo sviluppo del Paese nonostante le sue enormi potenzialità

Cosa pensa dell’attuale comunicazione scientifica relativa ai rischi geologici?

Penso che negli ultimi anni siano stati fatti molti passi in avanti da molte realtà che si occupano anche di divulgazione e disseminazione di conoscenze nell’ambito dei georischi. Tuttavia, a volte capita che ci sia una dispersione delle energie. Tutte le università e i dipartimenti di Scienze della Terra, infatti, organizzano delle iniziative, spesso decuplicando lo stesso tipo di informazione. Ciò, secondo me, può disorientare il cittadino che talora non comprende i diversi modi di raccontare la scienza.

A tal fine noi geologi dovremmo agire in maniera sinergica, concertando e organizzando degli appuntamenti per far conoscere cause e conseguenze, ma anche prevenzione, dei rischi geologici.

Tipicamente, i geologi vengono chiamati solo a seguito di eventi catastrofici come terremoti, eruzioni vulcaniche e dissesti idrogeologici mentre bisognerebbe cominciare a sensibilizzare la popolazione prima degli eventi e in modo sistematico, adattando la disseminazione delle conoscenze al tipo di pubblico. 

Quando ho ricoperto il ruolo di Presidente della Società Geologica Italiana, uno dei miei desideri era quello di introdurre già dalla scuola elementare qualche ora di educazione geologica, così da trasmettere ai bambini il messaggio che i rischi correlati non possono essere eliminati ma è possibile controllarli e, in parte, prevenirli se si conoscono le caratteristiche del territorio.

A seguito del terremoto di Amatrice ho subito un vero e proprio shock culturale, dovuto al fatto che nessuno, in quel frangente, contattò la Società Geologica Italiana, la più antica e più grande società che abbiamo in Italia nell’ambito delle geoscienze. Questo avvenimento mi ha fatto riflettere sulla nostra responsabilità in qualità di geologi e su quanto spesso siamo percepiti come “trasparenti” dalla società. Dobbiamo impegnarci per diffondere le conoscenze geologiche e adattare il nostro linguaggio ad una platea ampia che includa i non addetti ai lavori, trasmettendo allo stesso tempo concetti scientifici corretti.

Per concludere, cosa consiglierebbe a una ragazza/o che vorrebbe studiare geologia?

Sostengo sempre che bisogna studiare qualcosa che piace, ci vuole la passione. 

Quando mi sono iscritta all’Università avevo poche idee rispetto alla geologia, ma ero molto curiosa e determinata a studiare per comprendere i “paesaggi rocciosi”. 

Si tratta di una scienza molto complessa che non si limita alla descrizione di montagne e pianure e che necessita della conoscenza di materie quali la matematica, la fisica e la chimica. Anche la biologia è importante, perché molti “oggetti geologici” sono il risultato di cicli bio-geo-chimici. Quindi bisogna impegnarsi e studiare molto al fine di poter elaborare dei modelli che permettano di comprendere, per esempio, terremoti ed eruzioni vulcaniche, ma anche la nascita e l’evoluzione della vita.

Dico sempre che viviamo su un pianeta roccioso, per questo non possiamo non conoscere la geologia. Inoltre, non è una disciplina che si può studiare solo sui libri, bisogna andare sul campo, osservare le rocce, i sedimenti, i minerali, i fossili, i vulcani e i prodotti dei terremoti sul terreno. La natura ci riserva sempre delle sorprese meravigliose e inaspettate che con gli elementi giusti possono essere comprese.

La geologia, infatti, è tutta intorno a noi e fa parte della nostra vita quotidiana, anche se spesso non se ne ha la consapevolezza, a partire dal sale che utilizziamo per condire gli alimenti, che di fatto è una roccia. Fatevi avanti, la geologia vi aspetta!