Il Paese della Grande Muraglia che troneggia dalle alture delle province settentrionali fino al mare del Passo Shanhai, delle arti marziali raccontate nelle vecchie pellicole con Bruce Lee e dell’Esercito di terracotta che ancora oggi veglia nell’Aldilà sul primo imperatore Qin Shi Huang. Il Paese del regime comunista di Mao Zedong e delle dottrine etiche e umanistiche di Confucio, delle lanterne rosse lungo le strade e della spiritualità nativa e spontanea. Di Marco Polo e delle vie della seta lungo le quali nell’antichità si snodavano i preziosi commerci tra l’impero cinese e quello romano.
La Cina è una terra dalla storia millenaria, scritta per secoli e secoli quasi senza che l’anima occidentale del mondo se ne avvedesse. Un Paese vastissimo, ricco di contraddizioni, con le valli del Fiume Azzurro e del Fiume Giallo perfette e placide culle di una cultura estremamente poliedrica.
Una nazione in cui la ricerca vulcanologica ha subìto una notevole accelerazione negli ultimi anni, spingendo i ricercatori a ricostruire il passato dei principali vulcani del Paese, ancora oggi poco conosciuto. È proprio di questo che abbiamo parlato con Guido Ventura, vulcanologo dell’INGV da tempo impegnato nella ricerca vulcanologica in Cina, che abbiamo intervistato per conoscere meglio i vulcani del Paese e gli aspetti che più lo hanno colpito durante il suo lavoro in quell’angolo di Estremo Oriente.
Guido, che tipo di “assetto” ha la Cina dal punto di vista vulcanologico?
La Cina ha numerosi vulcani, alcuni attivi, altri molto antichi e oggi estinti. Questi vulcani si concentrano nella Cina nord-orientale, in Tibet e nella Cina meridionale. I ricercatori cinesi hanno da pochi anni iniziato lo studio dei vulcani attivi, la cui storia ed evoluzione è ancora in gran parte poco conosciuta, ma stanno facendo passi da gigante. Alla fine del 2020 hanno fondato il primo centro di ricerca nazionale, l’Institute of Volcanology. Attualmente, l’osservatorio del vulcano Changbaishan, al confine con la Corea del Nord, rappresenta la struttura di riferimento per la materia. Allo sviluppo e organizzazione di questo osservatorio ha contribuito anche l’INGV.
Quali sono i principali vulcani cinesi? Su quali hai avuto modo di lavorare?
I principali vulcani che hanno eruttato in tempi storici sono il Changbaishan (la cui ultima eruzione risale al 1903), il Jingpo (che ha eruttato l’ultima volta nel 520 A.C.), il Kulun (silente dal 1951), il Longgang (che ha eruttato solo in epoca antica), il Tianshan (con l’ultima eruzione risalente all’Alto Medioevo) e il Wudalianchi (che non erutta dal 1776).
Ho lavorato e continuo a lavorare essenzialmente sul vulcano Changbaishan, montagna sacra per cinesi e coreani, responsabile della più grande eruzione del millennio (avvenuta nel 946), sui centri eruttivi Wudaliachi, localizzati al confine con la Russia, e, da poco tempo, sul Tengchong, in Tibet.
Hai qualche ricordo particolare che ti piacerebbe raccontare a proposito della tua esperienza lì?
Sì, certo! Uno è legato al Changbaishan: poiché questo vulcano è situato al confine con la Corea del Nord, la zona è fortemente militarizzata e l’accesso è, di fatto, vietato. In questa situazione, per prelevare campioni di rocce da studiare e non essere ‘intercettato’ dalle telecamere dei militari coreani, ho sempre aspettato che salisse la nebbia e lavorato ‘nell’ombra’.
Una bella esperienza è stata poi sicuramente la lunga nottata passata a discutere con il curatore dell’edizione cinese del “Milione” di Marco Polo, TongNian, sul ruolo centrale di questo libro nella cultura popolare cinese ed europea. Un modo per annullare le differenze tra due ‘mondi’ ancora così diversi nonostante gli intensissimi rapporti economici e commerciali. Questi ultimi, infatti, non toccano la maggior parte della popolazione ed è quindi necessario far conoscere i punti di contatto e la lunga storia comune di Cina e Italia.
Che livello di consapevolezza c’è, tra la gente del posto, del rischio vulcanico?
La Cina è, di fatto, un continente, quindi la consapevolezza del rischio vulcanico e sismico è estremamente differenziata nelle varie province. Devo però dire che gli osservatori vulcanologici e gli uffici scolastici statali collaborano attivamente: il rischio vulcanico è oggi materia di insegnamento nelle scuole di primo grado in gran parte della Cina orientale. Stiamo collaborando molto con le autorità cinesi nel sensibilizzare le popolazioni residenti su tutti i temi riguardanti i rischi n
aturali, non solo su quello vulcanico e sismico.
Esistono, secondo te, delle differenze tra l’approccio scientifico “occidentale” e quello “orientale” alla ricerca vulcanologica?
Direi di no, l’approccio scientifico è lo stesso: quello che cambia è certamente il modo di esporre i dati e i risultati. Le modalità di comunicazione dei ricercatori cinesi tengono in grande considerazione la sensibilità e la posizione dell’interlocutore (che sia un collega, un’autorità politica o la popolazione in genere): sono in grado di adattare il loro linguaggio in funzione di chi hanno davanti. Questo può essere un problema per noi occidentali quando, ad esempio, ci si trova in delle riunioni nelle quali sono presenti figure professionali o autorità politiche e amministrative diverse.
Inoltre, i ricercatori cinesi provengono da un’educazione universitaria estremamente specialistica e hanno quindi una percezione più settoriale dei problemi scientifici. Non va poi dimenticato che gli aspetti ‘tecnologici’ della ricerca in Cina attirano l’attenzione molto più che da noi.
Cosa ti colpisce maggiormente della cultura cinese?
La nostra cultura è essenzialmente di matrice greca e araba e si fonda sull’ individuo (gli eroi!). L’Europa è stata sempre un aggregato di comunità relativamente piccole, spesso in guerra tra loro (anche in tempi recenti).
La Cina, al contrario, ha una storia millenaria basata su un potere estremamente centralizzato (impero prima e partito unico poi) che doveva pensare al benessere di tutti per mantenere il potere ed evitare rivoluzioni. Per fare solo un esempio, i contadini cinesi sapevano perfettamente che, nel caso la siccità avesse colpito qualche regione dell’Impero, parte del loro raccolto poteva essere confiscato dalle autorità imperiali e mandato alle popolazioni che ne avessero bisogno. Le guerre in Cina sono state poche e il potere è rimasto quasi sempre accentrato, come del resto lo è ancora oggi. Inoltre, avevano un sistema moderno di reclutamento dei funzionari e già nel Medioevo si accedeva alle cariche pubbliche per concorso.
La loro è quindi una cultura essenzialmente ‘collettiva’ e ragionano in termini ‘generali’ e quasi mai personali, se non per le cose ‘spicce’. Questa visione mi attira molto, così come, più in generale, le culture lontane dalla nostra.
L’INGV è coinvolto in qualche accordo di collaborazione scientifica con Enti di ricerca cinesi?
L’INGV ha molti progetti e accordi bilaterali con diverse Università cinesi e con molti Istituti facenti capo alla China Academy of Science, l’Ente che finanzia e promuove la ricerca di base e quella applicata. I rapporti sono abbastanza stretti: diversi ricercatori INGV lavorano in Cina e, viceversa, molti ricercatori, dottori di ricerca e dottorandi cinesi vengono a lavorare da noi all’INGV.
L’emergenza da Covid-19 ha avuto impatto sulla tua vita da ricercatore?
L’emergenza non mi ha consentito di effettuare viaggi di lavoro, certo, ma per il resto devo dire di no, non ha influito significativamente sul mio lavoro di ricercatore.
Una volta terminata questa fase di pandemia hai già in programma di tornare in Cina per nuovi studi?
Sì, appena possibile dovrò ripartire e andare in Tibet, al Changbaishan e a Pechino. Alla fine del 2021 un dottorando cinese verrà all’INGV per studiare rocce campionate in uno dei pozzi più profondi mai perforati (il Songke Well No.2, situato nella Cina orientale e profondo ben 7 chilometri).
Le collaborazioni fortunatamente continuano e abbiamo in preparazione un nuovo accordo con la Jilin University di Changchun.