Sono passati dieci anni dal disastroso terremoto che ha colpito la regione di Tōhoku, in Giappone. A seguito del sisma, un maremoto, il più forte documentato nell’area, ha colpito le coste giapponesi causando danni e vittime. Per sapere cosa è accaduto e cosa è stato scoperto sull’evento abbiamo intervistato Fabrizio Romano, ricercatore dell’INGV ed esperto dell’argomento.
Fabrizio, cosa è accaduto quel’l11 marzo di dieci anni fa?
L’11 marzo 2011, alle 14:46 locali (le 05:46 in Italia), avvenne un terremoto di magnitudo momento Mw 9.1 al largo delle coste di Honshu, l’isola più grande del Giappone. Il terremoto generò uno tsunami che devastò le coste giapponesi, colpendo principalmente la regione di Tohoku, da cui poi prende il nome questo evento. Il terremoto di Tohoku è stato uno dei 5 terremoti più forti avvenuti dal 1900 e il più forte evento sismico mai registrato in Giappone in epoca strumentale. L’altezza delle onde dello tsunami e le quote topografiche e distanze dalla costa raggiunte dall’inondazione sono state almeno comparabili, o hanno superato, le massime mai osservate o documentate in Giappone.
Di che tipo di terremoto si è trattato?
Il terremoto è avvenuto in una delle zone sismicamente più attive della Terra e precisamente all’intersezione tra la placca di Okhotsk e la placca Pacifica (la placca tettonica più grande del nostro pianeta). In particolare, la litosfera oceanica della placca Pacifica si immerge al di sotto della litosfera continentale della placca di Okhotsk ad una velocità di convergenza di circa 9 cm all’anno. Questo processo, chiamato subduzione, è responsabile dei terremoti più forti che avvengono sulla Terra. I forti terremoti che avvengono lungo le interfacce di subduzione se sono caratterizzati da un’area di rottura lungo il piano di faglia che si estende per centinaia di km e da un meccanismo di fagliazione inverso a basso angolo (< 45°, thrust appunto) sono definiti terremoti megathrust. Avvenendo in mare aperto, o in prossimità della costa, questi terremoti generano uno spostamento repentino del fondo del mare che spesso può causare uno tsunami, proprio come accadde nel caso del terremoto giapponese dell’11 marzo 2011.
Il terremoto di Tohoku è uno degli eventi sismici più studiati di sempre, cosa avete scoperto?
Grazie all’enorme mole di dati geofisici a disposizione come quelli sismici, i dati geodetici, i dati satellitari e naturalmente i dati di tsunami, tra i tanti aspetti che sono stati messi in evidenza di questo evento, è doveroso sottolinearne due: la limitata lunghezza della rottura lungo il piano di faglia e la significativa dislocazione superficiale. L’area di rottura risulta molto più piccola della media di quelle osservate o predette dalle classiche rel
azioni empiriche che legano magnitudo e area di rottura, risultando forse inaspettatamente limitata per un evento di questa magnitudo. La superficie di faglia del terremoto di Tohoku che è stata interessata da uno spostamento significativo infatti è stimata essere pari a circa 350 km in direzione nord-sud per 200 km in direzione est-ovest, una stima di molto inferiore a fronte di larghezze della rottura comparabili, per esempio nel caso di due forti terremoti di subduzione avvenuti recentemente. Il terremoto del Maule (Chile) del 2010, sebbene con una magnitudo leggermente inferiore (Mw 8.8), si è sviluppato per una lunghezza circa 600 km; il terremoto di Sumatra del 2004, con una magnitudo comparabile (Mw 9.2), è stato caratterizzato da una lunghezza di rottura molto maggiore, circa 1300 km dal nord dell’isola di Sumatra su fino alle isole Andamane nell’Oceano Indiano. Il secondo aspetto invece riguarda la propagazione della rottura che ha raggiunto la parte più superficiale dell’interfaccia di subduzione, arrivando a dislocare il piano di faglia in prossimità della fossa oceanica di più di 40 metri (alcuni modelli stimano una dislocazione maggiore di 60 m). Questo è molto importante perché significa che la rottura si è propagata in una zona considerata generalmente asismica, a causa della bassa rigidità dei materiali coinvolti e della presenza di fluidi, ed essendo molto superficiale ha causato uno spostamento del fondo molto significativo e concentrato, che ha quindi contribuito ad aumentare l’altezza delle onde di tsunami prodotte da questo terremoto. Entrambe queste caratteristiche sono cruciali e vanno perciò tenute in conto nei modelli utilizzati sia in ottica tsunami warning che nell’analisi della pericolosità di lungo termine.
Qual è la storia sismica della zona?
L’area in cui è avvenuto il terremoto di Tohoku è una delle aree sismicamente più attive del mondo e non è nuova ad eventi sismici così forti come il terremoto di Jōgan nel 869, di Keicho nel 1611, di Meiji nel 1896, di Sanriku nel 1933, tutti con magnitudo maggiore di 8. Tutti questi eventi sono stati tsunamigenici causando molti danni e vittime in Giappone.
Quali sono stati gli effetti del terremoto e fino a dove si sono estesi i danni?
Un terremoto come quello di Tohoku sviluppa un’energia enorme, 8000 volte quella del terremoto di Norcia del 2016 di Mw 6.5 se volessimo fare un paragone, ma è caratterizzato da attenuazione delle ampiezze e da una dipendenza dello scuotimento dalla posizione della rottura sul piano di faglia che, insieme alla qualità dell’edilizia, hanno fatto sì che i danni maggiori siano stati causati dallo tsunami che ha seguito il terremoto, a partire da pochi fino a decine di minuti dopo le 14:46. Come nel caso di altri grandi terremoti tsunamigenici (Sumatra 2004 o Maule 2010), le onde di tsunami hanno avuto anche una propagazione transoceanica raggiungendo ad esempio le coste cilene con ampiezze superiori al metro. Tuttavia è sulle coste del Giappone orientale che lo tsunami ha avuto un impatto devastante. Le onde dello tsunami hanno raggiunto ampiezze maggiori di 10 metri davanti alle coste delle prefetture di Iwate, Miyagi e Fukushima, penetrando in terra anche fino a 5 km nella piana di Sendai; diversi gruppi di ricerca internazionali hanno collezionato più di 5000 misure di runup (cioè la massima quota topografica raggiunta dallo tsunami) lungo le coste giapponesi, riportando un’altezza media dell’onda davanti alla costa pari a 10 metri, e runup maggiori di 20 metri lungo le coste della prefettura di Iwate (un tratto di costa lungo circa 200 km) con un valore massimo di circa 40 metri a Miyako. Come conseguenza, danni significativi sono stati riportati a persone, ci sono state quasi 20000 vittime; abitazioni con più di 120000 case distrutte e infrastrutture, in quanto furono colpiti porti, dighe, aeroporti, ferrovie, centrali elettriche. Tra questi ultimi, dobbiamo ricordare l’impatto che lo tsunami ha avuto su 4 impianti nucleari, il più grave avvenuto nella centrale di Dai-ichi, situata nella prefettura di Fukushima. I protocolli seguiti nella progettazione di questa centrale purtroppo consideravano eventi sismici con magnitudo massima pari a M7.5 (stime basate solo su terremoti del passato e comunque non aggiornate con studi ed eventi più recenti) e onde di tsunami con altezze inferiori a circa 6 metri; il terremoto di Tohoku, invece, ben più grande di quanto considerato nella costruzione della centrale, ha generato uno tsunami che si è abbattuto sulla centrale con onde alte più di 13 metri. A seguito dell’inondazione i sistemi di raffreddamento dei reattori, alimentati elettricamente, hanno smesso di funzionare, con la conseguente fusione delle barre di combustibile in uno dei reattori. Il significativo rilascio di radioattività nell’aria causato da questo incidente fa sì che l’incidente nucleare di Dai-ichi sia classificato come il più grave avvenuto dai tempi di Chernobyl nel 1986.
Cosa abbiamo imparato da quel disastroso evento?
Il terremoto di Tohoku, con la sua grande quantità di dati geofisici di diversa natura ha evidenziato come un approccio multidisciplinare sia necessario per comprendere meglio alcuni aspetti dei processi fisici che guidano il meccanismo di rottura dei forti terremoti di subduzione. La multidisciplinarità così può rappresentare il paradigma da seguire prima nell’osservazione e poi nello studio dei terremoti di subduzione. In questo contesto quindi le reti strumentali assumono sempre più un ruolo importante; per fare qualche esempio, il Giappone ha iniziato a incrementare il numero di strumenti geodetici installati sul fondo del mare (così da permettere di stimare ad esempio in modo più accurato il grado di accoppiamento tra le placche soprattutto nella parte più superficiale dell’interfaccia di subduzione), oppure di boe-GPS in mare aperto (in grado di confermare la generazione di uno tsunami molto prima che raggiunga la costa). Anche le campagne di perforazione di fondo mare (come il progetto JFAST) si sono rivelate fondamentali (e continueranno ad esserlo in altre zone di subduzione) per una migliore comprensione del comportamento dei materiali che compongono la parte più superficiale della zona di subduzione. Questo approccio sia metodologico che strumentale, che si spera possa essere applicato su vasta scala, di certo contribuirà a migliorare i sistemi di allerta tsunami e la stima della pericolosità da tsunami lungo le coste.