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Un Paese lontano, esotico, collocato sull’altra faccia del mappamondo. Un’isola sospesa tra storia e modernità, in cui un passato antichissimo, fatto di rituali, templi e santuari, convive con un progresso apparentemente senza freni. In Giappone la dimensione sacra e intimistica della vita si fonde con l’alta velocità dei treni che collegano il Paese, con il colorato scintillio delle insegne al neon che illuminano le strade delle grandi metropoli, con il bianco e il nero dei manga che animano ogni genere della narrativa di questo angolo di Asia.

Nel viaggio tra gli scenari futuristici di Tokyo e i paesaggi più tradizionali di Kyoto, è impossibile non imbattersi in uno dei numerosissimi vulcani che costellano il Paese, che di una delle sue tre “montagne sacre”, il Monte Fuji, ha fatto un simbolo nazionale.

Jacopo Taddeucci è un ricercatore dell’INGV che, negli anni, ha lungamente studiato alcuni vulcani giapponesi appassionandosi, oltre che agli aspetti scientifici di questo spicchio di estremo Oriente, anche alla cultura antichissima di un popolo estremamente affascinante. Lo abbiamo incontrato per farci guidare in questo viaggio alla scoperta dei vulcani e delle tradizioni della terra del Sol Levante.

Jacopo, che tipo di assetto ha il Giappone dal punto di vista vulcanologico?

Il Giappone fa parte della cosiddetta “ring of fire”, la cintura di fuoco punteggiata di vulcani che circonda l’Oceano Pacifico. Presenta un assetto geo-dinamico dominato dal fenomeno della subduzione, ossia dallo scivolamento delle placche del Pacifico sotto il Paese: per questo è un territorio geo-dinamicamente molto attivo.

Lungo la ring of fire, infatti, vale a dire lungo questa catena di subduzioni che va dalla punta meridionale del Sud America alla Nuova Zelanda, passando per l’intero continente americano, lo Stretto di Bering e l’Indonesia, si concentrano numerosi fenomeni di entità anche ragguardevoli riguardanti tanto i terremoti quanto le eruzioni vulcaniche. Fenomeni che interessano ampiamente, quindi, anche lo stesso Giappone.

Quali sono i principali vulcani del Giappone?

Beh, in realtà questa è una domanda molto difficile, sono tantissimi! Basti pensare che solamente quelli potenzialmente attivi sono ben più di 100. Provando a fare un raffronto puramente statistico con l’Italia, che, per estensione, ha un territorio abbastanza paragonabile a quello nipponico, il Giappone ha circa dieci volte i vulcani del nostro Paese, con una concentrazione altissima.

Volendone citare alcuni direi l’Unzen, che è stato un vulcano particolarmente attivo alla fine del secolo scorso, ricordato purtroppo per le diverse vittime che fece, anche tra i vulcanologi, nel corso di queste eruzioni che si sono protratte lungamente nel tempo; ma anche il Sakurajima, vulcano sul quale ho avuto la possibilità di lavorare, l’Usu, l’Aso… Il più famoso di tutti, naturalmente, resta il Monte Fuji, che con i suoi 3.776 metri di altezza è la montagna più alta del Giappone nonché il simbolo del Paese.

Hai qualche ricordo particolare che ti piacerebbe raccontare a proposito della tua esperienza lì?

Si, certo, ne ho diversi. Io, come dicevo, sono stato due volte al Sakurajima per diverse tipologie di ricerche: ci sono molto affezionato e devo dire che ho davvero molti bei ricordi. Da quelli più impressionanti di Kagoshima City, la città di circa 600.000 abitanti situata alle pendici del vulcano, in cui, da molto prima dell’emergenza sanitaria da Covid-19, si gira spesso tutti con il naso e la bocca coperti da mascherine per proteggersi dalla cenere vulcanica che ricopre le strade. Il Sakurajima è infatti un vulcano che, ormai da diversi anni, produce delle esplosioni cosiddette vulcaniane, eruzioni di durata molto breve ma allo stesso tempo molto intense e frequenti, che producono nubi di cenere alte anche alcuni chilometri.

A proposito di aneddoti, pensate che a volte prima di arrivare ci chiedevamo dove avremmo potuto campionare della cenere vulcanica… Beh, una volta arrivati ci siamo sempre resi conto che le nostre preoccupazioni erano davvero inutili! Davanti le abitazioni trovavamo addirittura dei sacchetti di questa cenere perché a ogni cittadino del posto è regolarmente richiesto di spazzarla via dal proprio tetto e dal proprio giardino in attesa che passi un apposito camion per le corrette attività di raccolta e smaltimento!

Sul Sakurajima, inoltre, sono presenti tantissimi strumenti di difesa sia attivi che passivi contro il vulcano. Tra questi ricordo, ad esempio, dei bunker disseminati lungo la strada con dei cartelli a segnalare che, in caso di eruzioni maggiori, quelle strutture sono costruite appositamente per permettere di ripararsi a chi dovesse trovarsi all’aperto al momento dell’evento.

Un bellissimo ricordo che ho del tempo trascorso sul Sakurajima riguarda, poi, le pause che facevamo dal lavoro sul campo: completamente ricoperti di cenere, andavamo da un signore che aveva un piccolissimo chioschetto all’interno di una roulotte e che per fare ogni singolo caffè impiegava all’incirca una decina di minuti: pesava i chicchi uno a uno, li macinava a mano, scaldava l’acqua su un piccolo fornelletto elettrico e infine la versava lentamente sulla miscela. Più che una pausa dal lavoro era diventato un vero e proprio rituale.

Che livello di consapevolezza c’è, tra la gente del posto, del rischio vulcanico?

Beh, il livello di consapevolezza del rischio vulcanico in Giappone è sicuramente maggiore rispetto a quello che percepiamo noi qui in Italia, fosse anche solo, come dicevo prima, per l’enorme quantità di edifici vulcanici che punteggiano il Paese e che, quindi, favoriscono - anche indirettamente - una maggiore familiarità con il fenomeno.

Per spiegare un po’ questa familiarità pensiamo al fatto che, oltre al maggior numero di eruzioni di cui la popolazione fa esperienza ogni anno (proporzionale, naturalmente, al maggior numero di vulcani presenti sul territorio), una delle tradizioni più consolidate in Giappone è proprio quella termale: hanno queste onsen, ovvero delle “sorgenti termali”, sparse quasi in ogni angolo di ogni città che sono alimentate, per l’appunto, dalla vivace attività geotermica legata al magma che risiede in profondità.

Dal punto di vista di chi la scienza “la fa”, inoltre, va detto che in Giappone si dedicano moltissimo alla divulgazione: c’è tanta comunicazione del rischio, anche in questo caso sia attiva che passiva, con moltissimi cartelli informativi che sono affissi tanto in città quanto sui sentieri che salgono sui vulcani. La cultura della prevenzione, poi, fa sì che la popolazione venga regolarmente impegnata in esercitazioni e che l’attenzione verso i rischi naturali sia mantenuta sempre alta e costante.

Ma, parallelamente, c’è anche tanto turismo per così dire “vulcanico”: le librerie e i negozietti sono fornitissimi sia di opuscoli e volumi che raccontano i vulcani da un punto di vista scientifico e informativo, sia anche di gadget più divertenti e souvenir che fanno ormai parte della stessa cultura giapponese.

Esistono, secondo te, delle differenze tra l’approccio scientifico “occidentale” e quello “orientale” alla ricerca vulcanologica?

Secondo me no. La cultura scientifica e lo strumento scientifico sono gli stessi a livello globale, ben stabiliti da Galileo e Newton in poi: bisogna fare esperimenti, il dato deve essere robusto e le teorie confutabili, e così via. I principi, quindi, direi proprio che sono gli stessi un po’ in ogni angolo del mondo. Anche l’approccio, benché le culture siano estremamente diverse, è sempre quello del metodo scientifico.

E a proposito delle differenze culturali, cosa, a livello personale, ti colpisce maggiormente della cultura giapponese?

Beh io sono sempre stato molto affascinato dalla cultura giapponese e devo dire che una delle cose che più mi piace ogni volta che vado in lì è il fatto che si presenta davanti a me un luogo estremamente esotico. Un luogo che per quanto all’apparenza possa sembrare simile, a tratti occidentalizzato, in realtà è incredibilmente esotico in ogni suo aspetto: dagli eccessi delle grandi città, alla cultura rurale ancora molto radicata, ai comportamenti sociali. Mi affascina sempre andare e trovare questa grande diversità affiancata a un profondo senso di sicurezza fisica che è proprio quello che ti consente di godere delle differenze: è uno di quei posti in cui non mi sono mai sentito in pericolo, in cui ho sempre trovato grandi aiuti in caso di difficoltà nonostante a volte fosse complicato perfino comunicare per via della lingua. Il rifiuto, ad esempio, è una cosa socialmente molto sconveniente per un giapponese: quindi succede che a volte si trovino in difficoltà nel dire dei “No” anche quando non hanno compreso bene quello che si chiede loro o non ne sono completamente sicuri. 

L’INGV è coinvolto in qualche accordo di collaborazione scientifica con Enti di ricerca giapponesi?

Assolutamente sì, abbiamo tante collaborazioni in essere. Io personalmente ho curato la stesura di un memorandum of understanding tra l’INGV e il Geological Survey of Japan, che comprende vari Istituti che si occupano di ricerca, monitoraggio e mappatura del territorio. Ma ci sono anche tanti altri colleghi che collaborano strettamente o che sono visitor scientist in Enti giapponesi, così come molti colleghi nipponici che negli anni sono stati nostri ospiti qui in Italia. C’è un forte scambio tra i nostri due Paesi, senz’altro.

L’emergenza da Covid-19 ha avuto impatto sulla tua vita da ricercatore?

Devo dire che questa pandemia ha influito tanto sul mio lavoro, sì: le conferenze e i convegni sono uno strumento di crescita professionale estremamente importante per noi, e solo la parte online secondo me non basta. Gran parte della crescita professionale viene fuori da chiacchiere e scambi che è difficile programmare e inquadrare nell’arco di una singola conference call. Penso, ad esempio, al collega che ti ferma in corridoio dopo una presentazione, o durante un pranzo o una pausa… Sono tutti momenti fondamentali che in questo periodo naturalmente sono venuti a mancare. Ma penso anche alla parte più propriamente logistica, agli esperimenti che molti di noi avevano in programma di svolgere in laboratori esteri…

Io con le riaperture che nei mesi scorsi hanno interessato un po’ tutta l’Europa ho ricominciato un pochino a viaggiare per lavoro: sono stato in Germania, poche settimane fa siamo stati a Stromboli con colleghi stranieri, ma soltanto perché erano ambienti che era possibile controllare. Eravamo in poche persone, distanziati e con le mascherine indosso, all’aperto… In un convegno questo non sarebbe possibile, e infatti anche l’attualità ci dice come dalla stessa Presidenza del Consiglio ci sia stata nuovamente una drastica stretta in tal senso.

Ma la scienza chiaramente non si ferma: con molti colleghi abbiamo in programma moltissime attività che speriamo siano solo rimandate a tempi migliori.