Spiagge incontaminate, lunghe distese di sabbie bianche e acque caldissime e cristalline. Su tutto, palme e piccoli chioschetti a punteggiare un paesaggio che, come sulla tavolozza di un pittore, accosta pennellate di acquamarina a schizzi di verde smeraldo.
Le isole dei Caraibi sono un paradiso per gli occhi e per la mente, un angolo di pianeta meta di tantissimi turisti che ogni anno si ritagliano una piccola fuga dal grigio delle città. Ma il Mar dei Caraibi accarezza le coste di numerosissime isole oggetto del desiderio anche degli scienziati che da tutto il mondo giungono a queste latitudini per studiare in veri e propri laboratori a cielo aperto.
Tra queste, le Piccole Antille ospitano alcuni dei vulcani più interessanti dell’arco caraibico, la cui storia eruttiva è ben radicata nell’immaginario collettivo delle popolazioni locali. Ne abbiamo parlato con Tomaso Esposti Ongaro, ricercatore dell’INGV con una formazione da fisico che, durante i suoi studi in Francia, si è appassionato alla vulcanologia e alla dinamica dei fluidi coinvolti nelle eruzioni. Con lui abbiamo affrontato un lungo viaggio oltreoceano per scoprire, sul campo, i vulcani della Guadalupa e della Martinica.
Tomaso, che tipo di “assetto” hanno i Caraibi dal punto di vista vulcanologico?
Iniziamo col dire che solitamente si parla di “arco caraibico”, o Piccole Antille; si tratta di un arcipelago formato da circa una ventina di isole maggiori, quasi tutte di origine vulcanica, e da moltissime isolette minori.
Le Piccole Antille sono un classico esempio di arco di subduzione, ovvero un arcipelago la cui origine, verificatasi circa 55 milioni di anni fa, è associata allo “scivolamento” della litosfera atlantica sotto la placca caraibica.
In quest’area del pianeta l’attività vulcanica non risulta particolarmente intensa poiché la velocità di questo scivolamento è, in realtà, relativamente bassa: parliamo di circa 1,5 cm l’anno contro i circa 8 centimetri l’anno misurati per esempio in Indonesia.
Quali sono i principali vulcani della regione?
Beh, è difficile dire quali siano i principali, possiamo però vedere quali sono stati quelli storicamente più attivi. Tra questi va sicuramente ricordata l’isola di Montserrat, con il vulcano Soufrière Hills che è stato in eruzione dal 1995 al 2010, un’eruzione che potenzialmente potrebbe non essersi ancora conclusa e che ha causato diverse vittime e ingenti perdite economiche, rappresentando anche, però, un formidabile laboratorio a cielo aperto per la comunità scientifica vulcanologica.
Le altre due isole oggetto di cronache storiche nell’ultimo secolo sono la Montagne Pelée, nell’isola della Martinica, e La Soufrière della Guadalupa. La prima è stata responsabile del più grande disastro vulcanico in termini di vite umane associato ai flussi piroclastici (ovvero miscele di gas e ceneri vulcaniche che si propagano lungo le pendici di un vulcano). L’eruzione del 1902 della Montagne Pelée portò, infatti, alla distruzione della città di Saint-Pierre e alla morte di quasi 20.000 persone.
La Soufrière della Guadalupa, infine, è stata protagonista, nel 1976, di una crisi eruttiva divenuta “celebre” per l’ampio dibattito scientifico che originò, in particolare tra i due scienziati francesi Haroun Tazieff e Claude Allègre, e che portò all’evacuazione per diversi mesi di circa 70.000 persone, con delle conseguenze drammatiche per l’isola da un punto di vista economico e sociale. Recentemente questo vulcano ha manifestato qualche segno di risveglio, con attività profonda magmatica.
Tra tutti, quali hai avuto modo di studiare più da vicino?
Ho iniziato a studiare le eruzioni della Soufrière di Guadalupa circa dieci anni fa, nell’ambito di un progetto finanziato dall’Agenzia Nazionale per la Ricerca francese per il quale mi sono occupato, insieme al collega Augusto Neri, di modellizzare con i nostri modelli fisici l’attività eruttiva e la pericolosità del vulcano. Questo perché, negli anni precedenti, avevamo effettuato un lavoro analogo per il Vesuvio.
In parallelo, avevo iniziato ad interessarmi all’attività della Montagne Pelée a seguito degli studi che avevamo fatto sulle eruzioni laterali del vulcano Soufrière Hills a Montserrat. In particolare, un evento del 26 dicembre 1997, detto blast vulcanico, aveva visto quest’ultimo vulcano eruttare in una modalità esplosiva particolarmente violenta: dallo studio di questa eruzione ho iniziato ad interessarmi all’ipotesi che l’eruzione della Montagne Pelée del 1902 fosse stata in effetti un blast analogo a quello osservato a Montserrat nel 1997.
Infine, più recentemente, mi sono occupato anche della crisi sismica del 2018 della Soufrière di Guadalupa che, come dicevo, è stata interpretata come un fenomeno di risveglio magmatico attirando l’attenzione sia della comunità locale (a causa del risentimento dei terremoti superficiali da parte della popolazione) che della comunità scientifica. L’ipotesi degli scienziati, infatti, era che questo tipo di unrest potesse essere seguito da un’attività cosiddetta “freatica”, ovvero da un’attività esplosiva associata non alla risalita di magma ma al riscaldamento del sistema delle acque superficiali che possono dare origine a esplosioni sulla cima del vulcano.
Hai qualche ricordo o aneddoto in particolare che ti piacerebbe raccontare sulla tua esperienza lì?
Beh, ce ne sono diversi! Innanzitutto devo dire che l’attività di terreno sui vulcani delle Piccole Antille è particolarmente stimolante perché si tratta, ovviamente, di posti meravigliosi da un punto di vista naturalistico. E posso dire anche che per un fisico come me, abituato a svolgere la gran parte della sua attività di ricerca davanti al monitor di un computer, l’attività sul terreno è sempre sorprendente e una fonte inesauribile di ispirazione.
Detto questo, mi piacerebbe raccontare in particolare un episodio legato a uno studio che stiamo portando avanti da tanti anni su quelle che, matematicamente, si possono definire le proprietà di scala della fluidodinamica, vale a dire quelle proprietà che, analizzate su piccola scala, ci permettono di studiare un fenomeno su larga scala. Questa possibilità, chiaramente, risulta particolarmente “comoda” nel caso dello studio dei vulcani. Avevamo osservato dalle nostre simulazioni numeriche sui modelli digitali degli effetti di potenziale canalizzazione di flussi piroclastici ad opera di alcuni rilievi morfologici. Durante una delle ultime missioni che ho svolto nelle Piccole Antille ho voluto, quindi, provare ad osservare sul terreno se effettivamente la morfologia del vulcano avesse effetto sul “percorso” dei flussi piroclastici… Beh, il risultato è stato che mi sono ritrovato a passare un’intera giornata nella foresta a cercare di superare nel fango dei rilievi morfologici che sul mio modello digitale apparivano come delle banali “increspature”!
Penso di poter dire con certezza che da quel giorno ho imparato ad apprezzare molto di più il valore della multidisciplinarietà e del lavoro che facciamo come modellisti.
Direi che questo può considerarsi uno degli aneddoti più buffi dell’attività di un fisico sul terreno di un vulcano!
Cosa, a livello personale, ti colpisce maggiormente della cultura locale?
Per quanto non possa dire di conoscere nel profondo la cultura caraibica, ho letto diversi libri al riguardo, sono un appassionato lettore di romanzi. L’impressione che ho avuto è stata quella di una fusione piuttosto profonda tra diverse influenze culturali, in particolare africana, centroamericana ed europea.
Per quanto riguarda l’influenza europea va ricordato che la cultura caraibica è ancora segnata in maniera profonda dall’esperienza coloniale, un’esperienza senza dubbio traumatica che riflette ancora una certa difficoltà, in alcune circostanze, nel coniugare l’identità locale con quella d’oltreoceano. Da questo punto di vista credo però che si stia facendo un lavoro molto ampio e importante con l’obiettivo di colmare questa distanza, sia per quanto riguarda la scienza sia per tutti gli altri ambiti della società.
Che livello di consapevolezza c’è, tra la gente del posto, del rischio vulcanico?
Va innanzitutto detto che, in particolare per quanto riguarda La Soufrière di Guadalupa, il vulcano locale che conosco meglio, c’è un’esposizione della popolazione al rischio vulcanico decisamente più limitata rispetto a quanto non avvenga, invece, nel nostro Paese per Etna, Vesuvio e Campi Flegrei. Le persone che vivono alle pendici della Soufrière sono infatti circa 70.000, un numero significativo ma molto inferiore rispetto, ad esempio, agli abitanti dell’area campana.
Per quanto riguarda la consapevolezza del rischio vulcanico della gente del posto direi che è molto difficile rispondere in maniera univoca per quanto riguarda la Guadalupa: dipende molto dalle varie zone dell’isola e dal tipo di cultura dei singoli cittadini.
Il rapporto con il vulcano è sicuramente molto sentito nella cultura locale, tuttavia la mitigazione del rischio vulcanico si scontra un po’ con la necessità dello sviluppo economico, con la necessità di coltivare i terreni sulle pendici del vulcano e con le necessità associate, ad esempio, al turismo, che è una delle fonti di reddito principali di Basse-Terre, la parte dell’isola della Guadalupa che ospita il vulcano.
Tra l’altro va ricordato che la città di Basse-Terre vive ancora oggi come un trauma l’esperienza dell’evacuazione del 1976 di cui ho parlato prima: in quell’occasione ci fu un ampio dibattito scientifico e un’eco mediatica impressionante correlati alla possibilità che l’eruzione del 1976 (che su scala vulcanologica si rivelò, in realtà, una piccola eruzione freatica) volvesse in una catastrofe simile a quella della Montagne Pelée del 1902, ben radicata nell’immaginario collettivo delle popolazioni caraibiche. In quel caso a Basse-Terre si optò per un’evacuazione preventiva e precauzionale della popolazione che fu senz’altro una scelta razionale dal punto di vista scientifico ma che causò di fatto il crollo dell’economia locale, in particolare lo spostamento del capoluogo amministrativo e una certa distruzione del tessuto sociale.
L’INGV è coinvolto in qualche accordo di collaborazione scientifica con Enti di ricerca locali?
Sia la Guadalupa che la Martinica sono dipartimenti francesi. Alle Piccole Antille la Francia ospita i due Osservatori vulcanologici e sismologici della Soufrière e della Montagne Pelée, afferenti a uno degli Istituti di geofisica più importanti d’Europa, l’Institut de Physique du Globe di Parigi (IPGP).
L’INGV ha recentemente sottoscritto un memorandum of understanding proprio con l’IPGP per svolgere in collaborazione sia attività di ricerca che attività di training e formazione in ambito sismologico e vulcanologico.
Una volta terminata l’emergenza da Covid-19, hai già in programma di tornare nei Caraibi francesi per nuovi studi?
Senz’altro sì, e spero che si possa fare quanto prima. La nostra attività di ricerca sta continuando nonostante le difficoltà dettate dal non poter andare a fare attività di terreno: io però svolgo molta attività di modellazione fisica e di simulazione numerica, quindi sto proseguendo nel mio lavoro “a distanza”.
Grazie a delle ricerche pionieristiche che sono state condotte negli ultimi anni dall’IPGP in collaborazione con altri Enti, tra cui l’INGV, La Soufrière della Guadalupa sta diventando un interessante laboratorio naturale per l’applicazione di metodi geofisici innovativi e per lo studio dei sistemi idrotermali vulcanici. L’obiettivo di queste ricerche è ricostruire l’immagine tridimensionale della sommità del vulcano e, in tal senso, il mio impegno risiede nella costruzione di modelli fisici dinamici dell’interazione tra i fluidi - sia magmatici che idrotermali - e la struttura del vulcano.
Al di là del lavoro “teorico”, però, come dicevo spero davvero di poter riandare presto a visitare il vulcano e a lavorare fisicamente a più mani con il personale dell’Osservatorio della Soufrière di Guadalupa.