Il ritratto di un pioniere della ricerca geofisica in Italia, nelle parole del professore Paolo Gasparini, suo allievo e successore.
È il marzo del 1944, sono trascorsi pochi mesi dall'armistizio dell'8 settembre. L'Italia è sotto le bombe; tra Cassino e Ortona si combatte un estenuante corpo a corpo tra truppe tedesche e alleate, Napoli è città aperta e nulla sembra avere più importanza. Eppure c'è un uomo che in cima al Vesuvio osserva preoccupato un sismografo. Lo strumento lascia fitte tracce sulla carta affumicata, ma a produrle non sono le bombe. Non sono neanche i cacciabombardieri americani che, da Terzigno, a pochi chilometri, si alzano in volo per colpire gli avamposti tedeschi. Quel tremore svela qualcosa che l'uomo, Giuseppe Imbò, direttore dell'Osservatorio Vesuviano, conosce bene. E' il Vesuvio che annuncia la sua prossima eruzione.
Il 23 maggio 2015, Giuseppe Imbò viene ricordato con un busto di bronzo nel corso della cerimonia di riapertura della sede storica dell'Osservatorio Vesuviano, sezione napoletana dell'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia. Ripercorriamo le tappe peculiari di oltre quaranta anni di attività dello scienziato con Paolo Gasparini, professore Emerito dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, Presidente e Direttore scientifico di AMRA (Analisi e Monitoraggio del Rischio Ambientale), già direttore dell'Osservatorio Vesuviano dal 1970 al 1983, componente e presidente di associazioni scientifiche internazionali, coordinatore di numerosi progetti di ricerca e autore di oltre cento pubblicazioni scientifiche sui temi della vulcanologia e della geofisica.
Cominciamo a parlare di Giuseppe Imbò partendo dall'eruzione del Vesuvio del 1944, forse uno dei momenti più drammatici, ma anche più importanti, della vita dello scienziato.
Quella del 1944 è stata l'ultima eruzione del Vesuvio e Imbò ne fu testimone e cronista. Analizzò le fasi eruttive, mettendole in relazione con l'attività sismica registrata dai pochi strumenti allora disponibili. L'Osservatorio Vesuviano era stato requisito dai militari americani, ma il suo direttore, con l' aiuto della moglie e di un collaboratore, proseguì le osservazioni vulcanologiche e le registrazioni sismiche. Alcuni giorni prima dell'evento lo scienziato intuì che l'eruzione sarebbe stata imminente, e si rese conto che l’aeroporto militare di Terzigno era particolarmente esposto alla caduta di ceneri e lapilli. Avvertì del pericolo gli ufficiali alleati, non fu creduto e addirittura deriso, ma il Vesuvio lo vendicò danneggiando molti aerei con una pioggia di cenere e lapilli.
Giuseppe Imbò fu direttore dell'Osservatorio Vesuviano e direttore dell'Istituto di Fisica Terrestre dell'Università di Napoli dal 1935 al 1970. Quali sono stati gli aspetti rilevanti della sua attività scientifica?
Imbò è stato un pioniere nello studio del tremore vulcanico, e definì un parametro - l' indice di attività sismica – che doveva rivelarsi significativo ai fini della previsione di alcuni tipi di eventi eruttivi a condotto aperto. Indagò i vulcani come oggetti fisici, esplorando e applicando allo studio del Vesuvio metodi geofisici innovativi sviluppati soprattutto in Giappone e alle Hawaii, come la gravimetria e le variazioni del campo magnetico. Insieme a Paul Melchior, geofisico belga, cercò di utilizzare le variazioni dei parametri delle maree terrestri sui vulcani per identificare le caratteristiche dei serbatoi magmatici che li alimentavano. Fu un pioniere nello studio della radioattività delle acque termali e delle esalazioni vulcaniche. Imbò fu inoltre un meticoloso osservatore delle fenomenologie vulcaniche e dei segnali sismici prodotti dai vulcani. A questo riguardo, oltre allo studio dell’eruzione vesuviana del 1944, molto citato nella letteratura scientifica internazionale, vanno ricordati anche i lavori selle eruzioni etnee, in particolare quella del 1928.
Con il duplice incarico di professore universitario e direttore dell'Osservatorio Vesuviano, Giuseppe Imbò ebbe l'opportunità di sperimentare e applicare sul campo gli aspetti teorici della ricerca geofisica. In che modo questo connubio ha contribuito allo sviluppo delle metodologie per la sorveglianza dei vulcani e per la previsione delle eruzioni?
Imbò incrementò le reti di monitoraggio strumentale del Vesuvio, potenziando quelle esistenti con strumentazioni più moderne e installandone di nuove. Sebbene intuisse la possibilità di utilizzare le metodologie di monitoraggio geofisico dei vulcani, soprattutto quelle sismiche, per la previsioni di eventi eruttivi, in effetti non ebbe mai modo di verificare questa intuizione. Essendo piuttosto chiuso di carattere non ebbe buoni rapporti scientifici con il mondo accademico nazionale. Nonostante ciò, formò un folto gruppo di collaboratori, molti dei quali (me compreso) proseguirono nella carriera scientifica, con i quali amava discutere anche vivacemente e che incoraggiò nel portare avanti le loro idee, anche quando erano in conflitto con le sue.
Nell'ultima fase della sua carriera scientifica Imbò fu protagonista di un'altra emergenza vulcanica, il bradisismo del 1970. Cosa ha rappresentato questo evento per la vulcanologia e per gli aspetti legati alla gestione di un possibile "unrest" (risveglio) di un vulcano quiescente?
La crisi bradisismica del 1970 si svolse in un clima di grande incertezza. La mancanza di dati e le forti incomprensioni tra gli scienziati coinvolti, la diffidenza reciproca tra organi dello Stato e comunità scientifica misero in evidenza l'inadeguatezza del sistema di difesa dalle emergenze. A differenza del Vesuvio, nell'area flegrea non esistevano reti di monitoraggio vulcanico. Le ultime misure di deformazione del suolo, eseguite nel 1968 dall'Istituto Geografico Militare (IGM), avevano confermato la subsidenza del territorio puteolano. Ma, all'inizio del 1970, diffusi segni macroscopici evidenziarono un sollevamento del suolo che, in base alle nuove misure dell'IGM, era di circa 70 centimetri al Serapeo. L'Osservatorio Vesuviano installò in breve tempo tre stazioni sismiche, che registrarono ai primi di marzo alcuni piccoli terremoti, non avvertiti dalla popolazione. Il sollevamento aveva intanto raggiunto i 90 centimetri. In base a questi elementi il Ministro dei Lavori Pubblici e il sindaco di Pozzuoli decisero l'immediato sgombero del Rione Terra, il centro antico di Pozzuoli, le cui abitazioni fatiscenti sarebbero potute crollare in caso di una sismicità più intensa. Questa decisione, certamente non surrogata da consistenti dati scientifici, alimentò il sospetto che l'evacuazione servisse a favorire un tentativo di speculazione edilizia, più che a proteggere la popolazione da un reale pericolo. La crisi flegrea divenne un caso scientifico internazionale, con forti divergenze di opinione tra gli esperti coinvolti, primo dei quali fu lo stesso Imbò, anche se tutti concordarono sulla necessità di sviluppare le attività di monitoraggio nell'area. Era evidente che la mancanza di serie temporali di dati non permetteva di effettuare una valutazione scientifica appropriata di quanto stava accadendo. Il sollevamento continuò fino al 1972 e raggiunse 170 centimetri. Venne realizzato un nuovo quartiere, Toiano, in cui si trasferirono gli abitanti del Rione Terra, che venne murato per impedirne l'accesso. Fu un brutto momento per la vulcanologia, non solo napoletana, che non riuscì a proporsi come interlocutore autorevole e credibile nei confronti degli amministratori pubblici e costituisce un esempio da non ripetere di cattiva gestione di un'emergenza vulcanica.