Nel 1912 Giuseppe Mercalli ripubblicava il suo lavoro “Le case che si sfasciano e i terremoti”, scritto la prima volta nel 1885 per illustrare il rischio sismico della città di Napoli, aggiungeva una postilla al titolo, “Repetita juvant”, come ennesimo richiamo alla sordità degli amministratori rispetto ai problemi della sicurezza sismica. Nell’articolo del 1885, all’indomani del terremoto di Casamicciola, Mercalli infatti ammoniva che la responsabilità di avere conoscenza dei rischi del proprio territorio era degli amministratori pubblici. E ribadiva una speranza che quanto successo là, fosse di lezione per gli amministratori di tutta l’Italia.
Ovviamente nessuno ascoltò Mercalli, né i suoi allievi e successori nello studio dei terremoti italiani a tal punto che nel 1936 Mario Baratta, altro grande della sismologia, si espresso come segue parlando del terremoto: “misterioso flagello che insidia la vita economica del nostro Paese, e costringe, specie in certe regioni, [...] al disperato lavoro di Sisifo; ricostruire ciò che fu distrutto e che in avvenire pur troppo, se le popolazioni non rinsaviranno, nuovamente cadrà”.
Mi premeva in questa breve nota mettere in evidenza, ancora una volta, ciò che la sismologia predica da decenni, e cioè che soltanto una attenta gestione del territorio e delle sue infrastrutture può interrompere questa infelice altalena tra distruzioni e ricostruzioni. Tutto ciò però probabilmente si scontra con atavici costumi italici come l’incuria del bene comune, il sospetto e il fastidio rispetto agli obblighi civici, e direi il fatalismo.
Due soli esempi per non tediare. Nel 1783 una sequenza sismica di devastanti proporzioni mette in ginocchia tutta la Calabria, e non solo. L’amministrazione borbonica prese in considerazione il fatto che le città distrutte potevano essere ricostruite nello stesso sito, se fossero state osservate delle regole “antisismiche” (le cosiddette Istruzioni Reali). Furono così emanati, per diverse città, dei nuovi piani regolatori e dei regolamenti per ricostruire nelle zone colpite. Le regole erano dettate soprattutto dal buon senso e da semplici accorgimenti come il non costruire oltre il secondo piano, dotare gli edifici di elementi di connessione tra le pareti e il tetto, ridurre la dimensione delle finestre, far si che le strade fossero più larghe dell’altezza degli edifici. Il nuovo piano regolatore di Palmi mostra il progetto di una cittadina con strade ortogonali, viali larghi e piazze. Purtroppo le buone intenzioni dei progettisti reali rimasero in parte sulla carta, e questo è facilmente deducibile sovrapponendo i danni della Palmi colpita dal terremoto del 1908, da cui si nota come le aree ricostruite fuori dal piano borbonico restarono pesantemente danneggiate.
Altro esempio purtroppo tristemente attuale. La città di Norcia venne colpita e danneggiata gravemente dal terremoto il 22 agosto 1859, ed anche in questo caso ci fu un deciso intervento normativo, voluto dal governo pontificio. I tecnici e gli esperti della commissione pontificia proposero un nuovo Regolamento edilizio che prevedeva che le nuove costruzioni dovessero essere preventivamente autorizzate, che stabiliva su quali terreni era possibile costruire ex-novo, e che stabiliva persino sanzioni per i non osservanti. Anche in questo casi venivano date regole per la progettazione, non più di due piani, massimo 7,50 m di altezza, modello “casa baraccata”; le volte erano state vietate, e tutta la struttura doveva essere dotata di chiavi e altri elementi di connessione. Questo regolamento fu contestato dal consiglio comunale di Norcia, per timore che edifici e terreni edificabili e perdessero valore. Il contenzioso tra comune e stato pontificio rallentò l’applicazione della legge, fino a che, con l’unità d’Italia nel 1860, questa decadde definitivamente, rendendo vano il tentativo di dotare un’area sismica di una norma moderna ed efficace. Nel 1879 e nel 1979 Norcia fu nuovamente danneggiata da terremoti di magnitudo non particolarmente elevata.
Spesso quindi, come d’altronde in molti altri campi, gli egoismi delle comunità, assecondati da un’amministrazione poco lungimirante, ma soprattutto irresponsabile, sono la causa di problemi e lutti subiti dalle generazioni successive.
Eppure dopo il terremoto dell’Irpinia, e la lezione virtuosa del Friuli, emergeva una diversa consapevolezza, che avrebbe dovuto aprire un percorso condiviso tra scienziati, decision makers e amministratori. In una intervista il prefetto Pastorelli, all’indomani delle scosse principali della sequenza del Maggio 1984 nel Basso Lazio, aveva ben inquadrato il problema: “un’Italia che si avvia ormai ad avere il suo terremoto quotidiano come il cappuccino con cornetto degli impiegati ministeriali.. “. Abituarsi quindi. Convivere con il fenomeno significa prendere coscienza dei rischi razionalmente e ma anche eticamente. Alla fine degli anni ’80 ci costrinsero a montare le cinture di sicurezza alle nostre auto, ed obbedimmo di malavoglia. Adesso sfido chiunque a dire che fu una scelta sbagliata. Costringeteci a verificare le nostre case, come fa la municipalità di San Francisco, pena l’esposizione di un cartello sull’edificio che ne dichiara l’inadempienza rispetto alla norma antisismica.
Estratto dall'intervento di A. Tertulliani al convegno “Cento anni dal terremoto. Ricostruzioni: Marsica 1915, L’Aquila 2009”, tenuto a Pescina (AQ) il 17 gennaio 2015