Dal magma al cioccolato: le diverse rappresentazioni del vulcano napoletano tra arte e artigianato.
Vivere all’ombra del Vesuvio non è mai stato scevro da paure. Lo sa bene il popolo partenopeo che da sempre combatte l’antico terrore della catastrofe naturale con fatalismo e tante idee geniali colorate, folkloristiche e artistiche che fanno di Napoli e del suo Vesuvio la fortuna di chi paura non ne ha più. L’iconografia del Vesuvio si è affermata come una tra le più celebrate e longeve, assumendo oggi un’altra dimensione, quella di “logo”, sempre più legata al tipo di società in cui viviamo. “Questa immagine è sia simbolo che merce”, afferma Tullia Uzzo, ricercatrice dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia - Osservatorio Vesuviano (INGV-OV). “A Napoli il Vesuvio è quello di cioccolato di Gay Odin (splendida opera d'arte con crema gianduia, dall'ineguagliabile bellezza e precisione), è la pizza fritta farcita e ricoperta di pomodoro, è la rappresentazione stilizzata in creta di numerosi artigiani locali che hanno trasformato il pennacchio del vulcano in un corno rovesciato per esorcizzare la paura dell’eruzione. Non una mera suggestione psicologica bensì una trasmissione di potenza, una forma di contagio dal corno al vulcano”. Il “logo Vesuvio” ormai indica qualcosa di diverso da sé: è il simbolo dei numerosi brand aziendali, istituzionali, sportivi, associativi ed enogastronomici; assume significati molteplici, ad esempio sulle insegne dei ristoranti. Non comunica solo un’appartenenza territoriale ma anche e soprattutto un’identità culturale, un’idea di genuinità. Anche l’eclettico architetto Renzo Piano si è cimentato con l’argomento, creando la morfologia del Vesuvio con cui dialoga a distanza: a Nola Sterminator Vesevo diventa il “Vulcano Buono”, una grande piazza per lo shopping o, come dice l’architetto, un posto dove le differenze spariscono e dove lo stare insieme, diventa un rito di scambio. “Se volgiamo lo sguardo al passato di questa città, non possiamo non cogliere come la sua crescita, spesso anche catastrofica, sia stata scandita dai colpi della natura e della storia che la scuotono violentemente con impressionante regolarità, mettendone al contempo in rilievo la singolare capacità autoregolativa e catartica”, prosegue Tullia Uzzo.
Le grandi catastrofi del XVII secolo nel Regno di Napoli: l’eruzione del Vesuvio nel 1631, la rivoluzione sociale del 1647, la pestilenza del 1656, caratterizzano la storia del secolo intero, ma a ogni catastrofe la città elabora una serie di risposte culturali, urbanistiche e artistiche. “Alla grande paura collettiva segue una sorta di frenesia descrittiva, altamente liberatoria ed esorcizzante”, aggiunge la ricercatrice dell’INGV-OV. “Il Vesuvio non è più soltanto un vulcano, un’espressione affascinante della natura, ma diventa un topos, un prodotto culturale, un oggetto che custodisce qualcosa di magico che gli bolle dentro, una sorta di anima creatrice”. Il Vesuvio, diventando oggetto artistico attraverso pitture, medaglie e sculture, è la testimonianza peculiare di un’estetica che supera la concezione tecnicistica del “Bello” e, soprattutto, verso la fine del Settecento e l’avvento dell’Ottocento, sottolinea il riscatto romantico del “terribile”, ovvero la rivincita di Thanatos su Eros. Questa immagine del sublime naturale è spesso ricorrente in molte opere artistiche. “Era, infatti, consuetudine fissare nella lava ardente del vulcano partenopeo l’immagine del Golfo di Napoli dominato da un Vesuvio fumante.Un nuovo pathos, una nuova passione, veemente ed entusiastica, che porta a fermare questa visione terribile nell’arte. Una passione che non nasce solo per soddisfare la brama di un percorso di conoscenza e di collezionismo, ma rappresenta anche la voglia dell’uomo di scommettere sul futuro e, nel nostro caso, di gareggiare con il “terribile”, tanto da giungere a imprimere il proprio nome nella lava, metafora della forza indomabile della natura”, continua Uzzo. La naturale tendenza dell’uomo per la grandezza, lo spinge sia alla riproduzione, sia, in qualche modo, alla approvazione di essa; ne è un esempio il duca Della Torre, che oltre a collezionare medaglie di lava vesuviane, volle imprimere il suo primatum sul fronte di alcune di esse, con la scritta lava cavata dal duca Della Torre . “Tra operazione artistica ed evento catastrofico si stabilisce quindi un esplicito legame analogico, anzi una sorta di rapporto agonistico, che sembrerebbe stemperare le scene orride innanzi al grande evento”, conclude Uzzo. “Tuttavia, alle rovine e alle desolazioni non si risponde col silenzio, quanto piuttosto con la cicatrizzazione delle ferite aperte nel corpo sociale e con la costituzione di un diverso modello mentale e culturale che rende se non comprensibile almeno gestibile l’evento”.