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Il Circeo tra mito e geologia: storia dell’antico livello del Mediterraneo
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- Scritto da Sara Stopponi
Fiero e solitario, incastonato nella placida quiete della pianura pontina, il promontorio del Circeo si staglia sul profilo del litorale laziale immergendosi nello spicchio di mare tra Sabaudia e Terracina. Oggi sede di uno storico Parco nazionale, questo angolo quasi inviolato di macchia mediterranea racconta in realtà storie antichissime che, tra mito e leggenda, affondano le radici nelle vicende che resero avventuroso il viaggio verso Itaca di Ulisse dopo la guerra di Troia.
Un ritorno a casa ricco di insidie e tranelli, come quelli orditi dalla fascinosa Circe, da tanti descritta come maga, dea o strega che attirava i viandanti nella sua lussuosa dimora immersa nel verde del promontorio per poi trasformarli, con le sue pozioni, in belve feroci.
Nel corso dei millenni molte popolazioni sono state attratte dal clima e dalla rigogliosità del Circeo per stabilire lì la propria casa, fuori e dentro i libri di epica. È del 1939, ad esempio, il ritrovamento all’interno di una delle grotte presenti sul promontorio, grotta Guattari, di un cranio ben conservato appartenente all’uomo di Neanderthal. Questa scoperta, oltre che di estremo interesse storico e archeologico, rappresenta anche un indizio per ricostruire, in maniera indiretta, la storia climatica del nostro Paese.
La paleoclimatologia, disciplina che si occupa proprio dello studio delle variazioni climatiche su scala globale legate principalmente alle grandi glaciazioni che nel pleistocene, ovvero nell’ultimo milione di anni, si sono succedute con una ciclicità di circa 100.000 anni, è un importante tema di studio anche per i ricercatori dell’INGV.
È stato pubblicato recentemente, infatti, uno studio che, mettendo in relazione dei rilievi sul campo effettuati proprio a grotta Guattari con le ricostruzioni del clima del passato ad oggi disponibili, ha avanzato l’ipotesi secondo cui durante il penultimo periodo interglaciale intercorso prima dell’ultima glaciazione (vale a dire tra 125.000 e 79.000 anni fa) il livello del mare lungo le coste del Lazio fosse in realtà sensibilmente più alto rispetto a quanto si fosse fino ad ora stimato con gli attuali modelli a disposizione. Abbiamo incontrato Fabrizio Marra, ricercatore dell’INGV e primo autore di questo innovativo studio, per saperne qualcosa di più.
Fabrizio, come è nato l’interesse scientifico che vi ha spinti a svolgere uno studio sull’antica posizione del livello del mare lungo le coste del Lazio?
In effetti ci si è arrivati per vie abbastanza traverse. Ho cominciato molti anni fa a occuparmi di paleoclima: per studiarlo, nel corso del tempo, abbiamo pensato di sfruttare quella sorta di laboratorio naturale che è l’area di Roma con le sue caratteristiche uniche. Si tratta, infatti, di un’area di costa con una geologia composta per gran parte di sedimenti costieri e marini che risentono sia dell’influenza dell’oscillazione del mare, sia della presenza del delta del Tevere.
Inoltre questa zona è resa a suo modo unica anche dalla presenza di ben due gruppi vulcanici che la circondano: i Colli Albani, a sud-est, e i Monti Sabatini, a nord-ovest, che sono stati attivi nell’ultimo milione di anni, quindi contemporaneamente al fenomeno di variazione del livello del mare che si intendeva studiare.
In che modo queste caratteristiche tipiche della zona sono collegate a quanto trattato nel vostro studio sulla ricostruzione storica del livello del mare al Circeo?
I prodotti vulcanici emessi per via primaria, ovvero con le eruzioni, o per via secondaria, ad esempio trasportati dal vento, hanno la fondamentale particolarità di contenere alcuni minerali, tra cui il potassio. Questo, essendo radioattivo, decade trasformandosi in argon e può essere datato con lo stesso principio con cui si data il carbonio.
Sostanzialmente, quindi, l’idea che abbiamo avuto è stata quella di analizzare la composizione dei depositi trasportati dal Tevere nel delta, alla foce e nel mare in quanto “contaminati” da prodotti vulcanici che ci hanno consentito di datare la loro sedimentazione, e di provare a comprendere come tale stratificazione di materiali abbia risentito della variazione del livello del mare durante il penultimo periodo interglaciale (vale a dire tra 125.000 e 79.000 anni fa).
Cosa avete scoperto?
Abbiamo riconosciuto sostanzialmente che la geologia di Roma è formata, lungo tutta la costa, da quelle che in gergo tecnico sono dette “successioni aggradazionali”: ogni volta che il mare è sceso di livello durante una glaciazione, quando cioè un grande volume di acqua restava intrappolato ai poli, il corso del Tevere veniva inciso e il mare arretrava; dopodiché, alla fine della glaciazione, quando i ghiacci si scioglievano (in un tempo geologicamente molto breve, ovvero in poche migliaia di anni), il mare risaliva velocemente e le incisioni del fiume si riempivano di sedimenti portati proprio dalle acque del Tevere. Risultato di questo processo sono una serie di strati che “aggradano”, ovvero che si depongono man mano che il livello del mare risale: abbiamo scoperto che ognuna di queste successioni ci testimoniava la fine di una glaciazione. Datandola, abbiamo ricostruito nel tempo tutte le successioni che si sono deposte alla fine delle glaciazioni, che sono state nove nell’ultimo milione di anni.
Inoltre abbiamo dovuto tenere presente che, anche a causa del vulcanismo, tutta quest’area è stata in continuo e lento sollevamento durante gli ultimi 300.000 anni: ogni successione di strati depositati, quindi, si trova a una quota diversa, con le stratificazioni più “vecchie” collocate più in alto. Anche questo è stato per noi un importante criterio per datare i vari “strati”: abbiamo visto che a seguito del sollevamento lungo la costa del Lazio si creavano dei cosiddetti “terrazzi marini”, ovvero delle superfici sub-pianeggianti corrispondenti alle antiche spiagge e pianure di costa di ognuno di questi cicli. Dalla ricostruzione della successione di questa serie di terrazzi si è potuto comprendere quale fosse il livello e la posizione del mare nelle epoche passate, nonché quale sia stata la velocità di sollevamento della crosta.
Perché avete svolto gran parte dei vostri rilievi proprio al Circeo?
Perché la costa del Circeo, a differenza di quella di Ostia (vicinissima a Roma), è caratterizzata da scogliere calcaree e da grotte che si affacciano 5, 6 o 7 metri sopra l’attuale livello del mare. Queste grotte sono famose per aver offerto riparo all’uomo di Neanderthal: in una di queste, a grotta Guattari - che stiamo studiando insieme al professor Mario Federico Rolfo del Dipartimento di Scienze Storiche dell’Università di Tor Vergata su proposta della Soprintendenza Archeologica del Lazio - sul finire degli anni Trenta venne rinvenuto un cranio di Neanderthal perfettamente conservato.
L’interesse principale dell’INGV per queste grotte risiede però nel fatto che qui si sono ben conservati anche dei cosiddetti “sea level marker”, ovvero dei marcatori del livello del mare costituiti da depositi di spiaggia, talvolta anche con delle conchiglie ancora al loro interno, che attualmente si trovano a 7, 8 o 9 metri sopra il livello del mare e che indicano che un tempo vi era una spiaggia posta proprio a quelle altezze. Oltre a questi marker, alle stesse quote vi sono anche dei “tidal notches” sulla scogliera, cioè solchi di battigia legati all’attività erosiva del moto ondoso del mare. Tutti questi indizi ci suggerivano, quindi, che con ogni probabilità un tempo il mare in quelle zone fosse in realtà molto più alto di quanto non sia oggi.
Che “prove” avete ricostruito a partire da questi indizi nel corso della vostra “indagine”?
Fino ad oggi si pensava che questi marker indicassero il livello del mare dell’ultimo periodo interglaciale, ovvero dell’ultimo periodo prima dell’ultima glaciazione, e che avessero quindi circa 125.000 anni: gli studi fatti dall’INGV hanno invece permesso di ipotizzare che fossero in realtà dei depositi decisamente più recenti.
L’ultimo periodo interglaciale ha avuto, infatti, tre “picchi” di riscaldamento e di conseguente scioglimento dei ghiacci: il più antico è stato proprio quello di 125.000 anni fa, cui ne sono seguiti però altri due, circa 100.000 e 79.000 anni fa, prima dell’ultima glaciazione. La nostra ipotesi sul fatto che i depositi del Circeo potessero risalire all’ultimo “picco”, ovvero a circa 79.000 anni fa, ha suscitato molta curiosità: prima di tutto perché la datazione di quei depositi a 125.000 anni era estremamente consolidata in tutto il mondo scientifico, secondo poi perché questa nuova ricostruzione ha tutta una serie di implicazioni.
Innanzitutto suggerisce che questa regione si sia effettivamente sollevata, ipotesi che in precedenza non era affatto consolidata. Ma, soprattutto, incrociando i dati sul sollevamento e sulla sua velocità media con le datazioni dei depositi in grotta risulta evidente che durante la fase finale dell’ultimo interglaciale (cioè circa 80.000 anni fa) in questa regione il livello del mare fosse molto più alto di quanto è in realtà stimato a livello globale. Infatti la stima globale parla, per l’epoca, di un livello del mare più basso di circa 20 metri rispetto all’attuale linea di costa: secondo la nostra ipotesi, invece, il mare doveva essere molto più alto, al massimo 7 o 8 metri più basso dell’attuale.
Tutto ciò ha evidentemente delle importanti implicazioni su tutti gli studi sulla variazione del livello del mare a scala globale, impattando anche sul nostro presente e sulla comprensione dei fattori che regolano effettivamente il livello marino, spronandoci a capire se questo è stato un fenomeno che ha impattato solo sul bacino del Mediterraneo oppure su tutto il mondo.
L’ipotesi più probabile, sulla quale stiamo lavorando e che risulta avvalorata da diversi modelli, è che questa anomalia sia semplicemente legata al fatto che finora si è sottostimato il volume dei ghiacci in Europa e sulle Alpi. Ipotizzare un volume di ghiacci maggiore, infatti, significa ipotizzare che il loro peso abbia fatto abbassare il livello delle coste e, quindi, diminuire la differenza tra quel livello e quello del mare.
Come si è svolto il vostro studio, pubblicato sulla rivista “Quaternary International”?
La prima fase in un modo molto semplice, andando in grotta, osservandola da un punto di vista geologico e studiando le testimonianze del passato lì presenti sotto forma di depositi di riempimento: abbiamo visto che la grotta, composta da una cavità principale e da un’altra serie di cavità carsiche, presentava nella sua parte più bassa un riempimento di sabbia con delle conchiglie ancora al suo interno. Sopra erano invece presenti delle sabbie arrossate di duna soffiate dal vento verso la terraferma: tra queste sabbie sono stati rinvenuti degli strumenti di pietra riconducibili alla cultura neanderthaliana a indicare che, una volta che il mare si è ritirato, gli uomini di Neanderthal hanno utilizzato questi spazi come riparo.
Successivamente abbiamo potuto sfruttare il fatto che, a causa dell’attività vulcanica tipica della zona intorno a Roma - cui abbiamo già accennato -, anche queste sabbie nelle grotte del Circeo fossero ricche di minerali vulcanici trasportati dal vento e dal mare: ci è stato quindi possibile datare con esattezza i detriti attraverso un metodo universalmente riconosciuto e validato, ovvero la datazione con gli isotopi dell’argon. Tra questi detriti abbiamo quindi trovato cristalli di 100.000 anni e, soprattutto, cristalli di circa 80.000 anni: questo dimostra che quei sedimenti non possono essere vecchi di 125.000 anni come si pensava, ma devono avere come minimo 80.000 anni, che è l’età da noi ipotizzata, e appartenere dunque all’ultimo “picco” di quel periodo interglaciale.
In che modo i risultati di questo studio influiscono sulle nostre conoscenze attuali circa il bacino del Mediterraneo?
Beh, sicuramente ci devono far riflettere sulla possibilità di approfondire l’ipotesi cui accennavo prima, ovvero quella secondo cui la differenza tra l’antico livello del mare calcolato fino ad oggi e il livello ricostruito da noi a grotta Guattari (più alto) sia in realtà frutto di una stima al ribasso del volume dei ghiacci nel vecchio continente durante la penultima glaciazione. Stimare un volume maggiore, infatti, consentirebbe di ipotizzare un peso maggiore dei ghiacci sulla terraferma e, dunque, un abbassamento del livello di costa, con conseguente riduzione del gap tra il livello stesso di costa e quello del mare.
Inoltre i risultati di questo studio potrebbero essere un ulteriore “la” per provare a comprendere, in un’ottica di paleoclima, quanto il cambiamento climatico oggi in atto sia un processo naturale legato ai cicli geologici del nostro pianeta e quale sia, viceversa, l’effettiva misura in cui l’attività dell’uomo influisce sul clima della Terra.
Quali saranno i prossimi passi dell’INGV in questo ambito di studio?
Stiamo continuando a fare delle datazioni di sedimenti su altre zone della costa tirrenica, dall’Argentario fino a Gaeta, per capire quanto sia ampio il fenomeno rilevato al Circeo e se sia, quindi, effettivamente riconducibile a una tendenza a livello globale e non ad una anomalia regionale.
Tra l’altro, va ricordato che queste anomalie erano state precedentemente rinvenute anche alle isole Baleari, in Spagna, ma erano state “criticate” e addotte a una datazione imprecisa: nel nostro caso la datazione con argon ci offre una collocazione storica inequivocabile. I nostri studi, quindi, confermano indirettamente anche quello che era stato rinvenuto alle Baleari e che, all’epoca, era stato ritenuto impossibile poiché non si pensava che 80.000 anni fa il livello del mare potesse essere così alto. I due casi, letti oggi sotto un’unica ottica, non solo si avvalorano a vicenda, ma ci danno anche un segnale circa il fatto che l’anomalia in questione ha riguardato almeno tutto il bacino del Mediterraneo.
Ciò che stiamo facendo come INGV è poi consolidare la collaborazione con il dottor Paolo Stocchi, ricercatore italiano che lavora all’Istituto Oceanografico nazionale olandese (NIOZ Royal Netherlands Institute for Sea Research Coastal Systems - COS), nonché uno dei massimi esperti di modellazione e di quello che viene definito “glacial isostatic adjustment”, ovvero l’aggiustamento della deformazione della crosta terrestre in risposta allo scioglimento o alla formazione dei ghiacci. Dal lavoro che stiamo svolgendo con lui sembrano effettivamente emergere delle evidenze, in precedenza trascurate, che ci dicono che i ghiacci, durante la penultima glaciazione, coprissero in realtà una porzione di Europa discretamente maggiore rispetto a quanto non si pensasse e che, soprattutto, fossero molto più estesi anche sull’arco alpino. Tuttavia, tali evidenze non sembrano sufficienti a giustificare delle differenze di livello del mare così grandi, lasciando ipotizzare, quindi, scenari a scala globale ancora più diversi di quanto finora stimato sulla base degli indicatori oceanici.