Carta d’identità
Nome: Dmitri Rouwet
Anni: pochissimo più di 40!
Qualifica: ricercatore
Sede: INGV Bologna
Campo di attività: vulcanologia, in particolare geochimica dei fluidi e studio dei laghi vulcanici
Motto della vita: “Work in alliance with Nature and respect its forces - everything and everyone can co-exist and thrive...” (Dr. N. Romanov)
Colore preferito: turchese
Dal Belgio a Città del Messico, passando per innumerevoli angoli del mondo e approdando a Bologna, dove vive oggi: per Dmitri curiosità, passione e dinamismo sono da sempre le parole d’ordine da tenere a mente nel suo imprevedibile e avventuroso viaggio tra vulcanologia, sport e famiglia.
Da anni parte dell’INGV, Dmitri parla fiammingo, italiano, inglese, spagnolo e francese e rappresenta la capacità di coniugare, divertendosi, lavoro e tempo libero. Un ricercatore che fa scienza senza essere nato “scienziato”, continuando a coltivare la passione per uno stile di vita green e grintoso.
Cosa o chi ti ha indirizzato verso gli studi di vulcanologia?
Un incontro casuale con Yuri Taran, geochimico russo dell’Universidad Nacional Autónoma de México (UNAM), a Città del Messico, che pochi giorni dopo è diventato il mio relatore/maestro di master e poi di dottorato. Parliamo di agosto del 2000, poco dopo la mia laurea in Geologia alla Katholieke Universiteit Leuven (KUL, Belgio). Sono partito per il Messico, Paese dove vive mia sorella, con una borsa di studio di due anni ma senza meta scientifica… L’incontro “casuale” con Yuri mi ha indirizzato verso la vulcanologia. Il mio primo vulcano è stato El Chichón, nella regione messicana di Chiapas.
Cosa ricordi del “primo appuntamento” con El Chichón?
Era il gennaio del 2001 e in realtà è stato un primo appuntamento in due fasi: la prima volta che l’ho visto, infatti, è stato con un volo in elicottero fatto con la protezione civile locale approfittando della piccola pausa concessa dalle piogge di quei giorni, ma non siamo riusciti ad atterrare. Il giorno dopo invece, dopo una camminata di circa 3-4 ore, siamo riusciti a salire, quindi diciamo che ero già in parte “preparato” a quello che avrei visto. È un vulcano davvero maestoso e suggestivo: la sua ultima, forte eruzione pliniana risale al 1982 e ha un cratere molto vasto, di circa un chilometro, oggi occupato da un magnifico lago vulcanico.
Come ti immaginavi nei sogni di bambino?
Decisamente non un vulcanologo. Sognavo il basket professionistico (che ho brevemente “assaggiato” da diciottenne).
In che squadra hai giocato?
Nella squadra della mia città, Bree. Dopo essere partiti dalle serie provinciali, sono arrivati in serie A stravincendo per 4-5 anni consecutivi, e diciamo che io mi sono trovato al posto giusto nel momento giusto. Il loro approdo nella serie maggiore coincideva con il mio avere l’età giusta per provare: avevo 18 anni, ero al primo anno di università, mi allenavo ogni giorno, con le giovanili stavo andando bene e quando mi hanno detto “Perché non fai panchina con la prima squadra?” ho risposto subito “Perché no?!”. Ed è andata proprio così, unendo il mio primo anno di università a una vita sportiva semi-professionistica.
Cosa ti ha lasciato quell’esperienza?
È stata una bellissima esperienza, che mi ha insegnato moltissimo. Tra l’altro siamo rimasti in serie A anche quell’anno, non siamo retrocessi, quindi è stata una grande soddisfazione. Poi però, dopo un’altra stagione (non a quei livelli), ho deciso di buttarmi definitivamente sullo studio, anche perché quel famoso primo anno di università non è che fosse andato poi così bene… Ogni volta che mi trovavo a dover scegliere tra i libri e gli allenamenti finivo col preferire il campo, quindi a fine stagione, quando si avvicinarono gli esami (alcuni dei quali non andarono proprio benissimo, ma ne valse decisamente la pena!), mi ritrovai con le spalle al muro, a un bivio: dovevo scegliere cosa fare del mio futuro, e a quel punto scelsi lo studio.
C’è stato un mito di riferimento cui ti sei ispirato nel corso degli anni?
Ho avuto la fortuna di incrociare le strade di vari Maestri del mio campo di attività, che mi hanno appoggiato e stimolato molto: Yuri Taran, Minoru Kusakabe, Joop Varekamp, Bruce Christenson, Franco Tassi. Mi piace definirli “i miei Sensei”, termine giapponese per indicare appunto i miei Maestri. Stimo molto il lavoro e l’amicizia dei “giovani” Giancarlo Tamburello, compagno di stanza e di battaglie, e Corentin Caudron, mio connazionale.
Il momento più emozionante della tua carriera?
Le scoperte delle sorgenti termali sul fianco del vulcano El Chichón: prima di allora (tra il 2003 e il 2009) non vi era mai stato nessuno.
È difficile conciliare il lavoro di ricercatore con la vita privata?
Da papà di due bimbi piccoli (Lupo, di 6 anni, e Ulay, di 20 mesi), il mio tempo è diviso in due tra lavoro e famiglia. In questa fase della mia vita per me va benissimo così.
I tuoi bambini sono ancora piccoli, ma ti piacerebbe che si avvicinassero anche loro al mondo delle scienze?
Mah, in realtà io conto di lasciargli aperta qualsiasi strada. Se avranno voglia di farlo bene, starò loro accanto stimolandoli, ma secondo me la cosa davvero importante è che trovino da soli la loro passione: come genitore cercherò di metterli nelle condizioni ideali per arrivare a vivere i loro sogni. Se poi questi sogni coincideranno con quello che faccio io bene, altrimenti farà lo stesso. Però devo anche dire che quando posso cerco di portarli con me in qualche viaggio: il più grande ha già visto qualche vulcano!
Qual è la prima cosa che fai quando torni a casa?
Il papà! Vado a prendere i bimbi, usciamo un po’, qualche volta andiamo a prendere un gelato, sistemiamo la casa, giochiamo… Il venerdì è il mio giorno di paternity leave dal lavoro, quindi avendo più tempo se riesco scappo anche a farmi una corsetta o a fare un giro con calma: ma la maggior parte del tempo fuori dall’ufficio è dedicata decisamente a loro.
Cosa pensi che saresti diventato se non avessi fatto il ricercatore?
Atleta prima e allenatore poi, o anche fisioterapista…
Qual è secondo te la scoperta scientifica che cambierebbe la storia della vulcanologia?
Il time-framing: consentirebbe di sincronizzare i metodi scientifici con i tempi dei processi che occorrono dentro un sistema vulcanico, a volte lentissimi, a volte velocissimi. Secondo me è una sfida senza fine, quindi decisamente stimolante.
Cosa ti sarebbe piaciuto scoprire, tra le scoperte del passato?
Ogni “scoperta” è solo un passaggio, fa parte di un’evoluzione. Non mi piace pensare che ci sia solamente LA scoperta.
Hai mai pensato di mollare la ricerca?
Si, tante volte, specialmente negli ultimi anni. Purtroppo il precariato mi ha costretto a tener sempre pronto un “piano B”, che sarebbe stato tutt’altra cosa rispetto alla vulcanologia. Sono molto contento che il “piano A” sia finalmente andato in porto (dopo tanti sforzi e un concorso); la dedizione e la passione per i vulcani, convertite spesso in resilienza, alla fine hanno avuto la meglio.
Hai vissuto e visitato tantissimi Paesi nel mondo, ma qual è quello che ti è rimasto più di tutti nel cuore?
Mmm, bella domanda… Sono stato quasi in ogni continente, però faccio fatica a dire quale sia il mio preferito. Sicuramente sono molto legato al Messico, dove sono andato a fare la specializzazione e dove mi sono avvicinato alla vulcanologia, quindi per me è senza dubbio un posto speciale, quasi una seconda patria. Uno dei miei più grandi sogni è sempre stato l’Oriente, dove fino a pochi anni fa non ero mai stato: ho amato la particolarità del Giappone e dell’Indonesia, luoghi così diversi dalla realtà a cui siamo abituati… Invece a marzo sono stato in Nuova Zelanda, classico Paese del desiderio di chi fa il mio mestiere, e devo dire che l’ho trovata un posto molto rilassante ma molto “strutturato”, ordinato, molto “anglosassone”… Non proprio quello che preferisco, anche se la verità è che ad oggi se dovessi scegliere un posto in cui vivere, pensando anche ai miei bambini, valuterei prima di tutto la tranquillità e la sicurezza: direi che per i posti più folli, selvaggi, avventurosi e pericolosi è arrivata per me la fase del “ma anche no”, ho già dato!
Qual è il tuo X-Factor?
Uno è saper staccare dal mio lavoro: in queste “pause” trovo spazio per crescere, sviluppare nuove idee e coltivare la creatività. Ma anche parlare 5 lingue mi è stato spesso di grande aiuto per muovermi con più agilità nel mio campo.
C’è qualcosa che ti mette ansia?
Non mi viene niente in mente. Sono molto ottimista e possibilista. La mia unica preoccupazione è la mia famiglia.
Ascolti musica?
Certamente, provo sempre ad aggiornarmi nonostante sia un “figlio” degli anni ‘80.
Perché il turchese è il tuo colore preferito?
Perché è il colore dei laghi craterici.
Libro preferito?
“Sacred Hoops” di Phil Jackson.
Se dovessi ricordare un tuo “primo giorno” quale ricorderesti?
Il primo giorno da papà. Come tutti i luoghi comuni sulla genitorialità, anche questo è vero, definisce nettamente un pre e un post.
Cosa fai quando non fai il ricercatore?
Il babbo, o mi muovo fisicamente, spesso facendo le due cose contemporaneamente. E sto vicino alle attività della mia compagna, l’illustratrice e artista Marta Jorio.
Cosa ti fa stare bene?
Muovermi, in tutti i sensi. Dal viaggio al movimento fisico, ma senza dubbio anche il dinamismo mentale.
In cucina preferisci il dolce o il salato?
Mangio tutto!
Vivi a Bologna, una delle città-simbolo della buona cucina all’italiana. Qual è il tuo piatto preferito?
Io tendo verso i piatti di pesce e le cose semplici: vado matto per gli gnocchi alla sorrentina, ad esempio. In generale diciamo che sono attratto dalle tipicità della cucina del Sud, più strettamente mediterranea: credo sia un retaggio che mi ha lasciato la città di Palermo, ho vissuto anche lì!
La tua maggior fortuna?
La salute, per poter continuare a sperimentare.
Hai un hobby?
Non mi piace molto la parola “hobby”. Anche il mio lavoro, per me, potrebbe essere considerato un “hobby”.
Qual è la tua missione possibile?
Provare a fare scienza senza essere nato “scienziato”.
Sport preferito?
Tanti: basket, nuoto, bici, corsa, arrampicata, yoga (se lo si può definire “sport”…).
Sportivo sul campo o sul divano?
Non abbiamo neanche un vero divano in casa!
Nella tua valigia non può mai mancare?
Scarpe da corsa (se non le indosso già alla partenza), costume da bagno (per le terme o il mare) e tappetino per fare yoga.
Il viaggio che non hai ancora fatto e quello che pensi che non farai mai?
Non sono ancora stato in Islanda, alle Hawaii, nelle Filippine, in Nepal (mi piacerebbe moltissimo visitare l’Himalaya), nella penisola della Kamchatka… ma so che prima o poi ci arriverò per motivi di lavoro (ho tanta pazienza!). Invece non andrei mai in Antartide: nonostante sia un posto magico, non mi piace per niente il freddo!
Hai un posto del cuore?
La foresta dopo la pioggia, scalzo…
Una cosa che hai capito “da grande”?
Non vorrei mai avere la sensazione di aver capito. Sarebbe la fine…
Una qualità che riconosci nel genere femminile e una nel genere maschile?
Per il genere femminile, la delicatezza nella lettura e nella comunicazione. Per quello maschile direi forse la capacità di mantenere i piedi ben saldi per terra e la forza, ma solo in teoria, non sono qualità che riconosco in tutti gli appartenenti al mio genere.
Cosa conservi della tua infanzia?
Strano ma vero, la mia rigidità nordica… purtroppo!
Ultima domanda: la canzone che non smetteresti mai di ascoltare?
“Darkness on the Edge of Town” di Bruce Springsteen.