Nel gennaio del 1968 un forte terremoto colpì la Valle del Belice, distruggendo anche la città di Gibellina, paesino dell'entroterra trapanese. Si trattava del più forte terremoto distruttivo del dopoguerra e nessuno sapeva come gestire l'emergenza. Nonostante le perdite umane e le pesanti ripercussioni sul territorio, la voglia di rinascita e di riscatto sociale incontrarono la natura salvifica dell'arte che, attraverso la mano di Alberto Burri, fermò la memoria storica di quei luoghi restituendone la più grande opera di Land Art al mondo.
Stiamo parlando del Cretto di Burri, una sorta di sudario di cemento bianco che ripercorre e racconta le vie e le storie della città vecchia, ricostruendone la pianta originaria.
Mario Mattia, ricercatore dell’Osservatorio Etneo dell'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, ci ha raccontato, con partecipazione emotiva, la storia di questa suggestiva opera d'arte contemporanea.
Cosa accadde esattamente quel giorno?
Il 14 gennaio 1968 era una domenica d'inverno come tante nel paese. C'era molta attesa per la partita del campionato di calcio: il Palermo giocava contro il Potenza.
Dalle 13:28 iniziò una sequenza sismica che culminò con la scossa delle 3:01 del 15 gennaio, di magnitudo 6.3.
Molti paesi furono rasi al suolo, tra questi Gibellina, uno dei più danneggiati. Nonostante numerose persone avessero deciso di passare la notte fuori dalle proprie abitazioni, il bilancio nella Valle fu terribile: 352 perdite umane, più di 600 feriti e decine di migliaia di senzatetto, oltre agli ingenti danni subiti dal patrimonio edilizio e rurale.
Quale fu la reazione al terremoto? Cosa avvenne subito dopo?
L’Italia repubblicana era giovane e fu colta del tutto impreparata. Era la prima volta che il governo italiano si trovava a gestire una emergenza così importante, tra l’altro in una zona molto povera, dove l'industrializzazione era sconosciuta e in agricoltura si usavano ancora tecniche arcaiche di coltivazione. Il governo dell’epoca, cercando di risolvere una parte del problema, trovò utile distribuire biglietti ferroviari di sola andata, per qualunque destinazione. Questa scelta, però, aggravò il già notevole fenomeno dello spopolamento abitativo e quelle zone subirono un esodo di circa 30.000 persone. Con l’abbandono delle terre la ricostruzione non era più urgente e gli interventi andarono inevitabilmente a rilento.
Quando ci furono i primi segnali di una rinascita?
Dopo circa un ventennio, Ludovico Corrao, sindaco di Gibellina dagli anni Settanta, diede una forte spinta alla ricostruzione di Gibellina e di tutta l’area del Belice con l’intuizione di partire da una ricostruzione “culturale” prima che edilizia. Persona estremamente sensibile all’arte, aveva molte amicizie tra i grandi architetti e i grandi artisti italiani del tempo a cui lanciò una sorta di invito e “sfida” a sperimentare e praticare l’arte a Gibellina. Era convinto che solo attraverso l’arte queste zone povere e disabitate avrebbero avuto un futuro.
Come rispose la comunità artistica italiana contemporanea?
La risposta fu forte. Moltissimi artisti di fama nazionale aderirono all'invito di Corrao (a titolo gratuito), tra questi Pietro Consagra, Alberto Burri, Ludovico Quaroni, Franco Purini, Laura Thermes, Mimmo Rotella, Mario Schifano e molti altri che arricchirono la Nuova Gibellina di opere di arte contemporanea. Parlo di Gibellina “Nuova” perché quando si presero le decisioni per la ricostruzione si optò di non recuperare l’abitato della vecchia Gibellina ma di trasferire il paese in un pezzo di territorio di Salemi, a circa quindici chilometri di distanza. L’impianto urbanistico adottato fu tipicamente nord europeo, in contrasto con quella che era la tradizione dei paesi siciliani tipicamente arroccati attorno ad un centro, con una struttura di tipo medievale. Qui gli artisti crearono una città completamente nuova che, paradossalmente, vive una contraddizione tra l’abbandono (sono pochissimi i gibellinesi rimasti) e la presenza di queste opere d’arte estremamente moderne, strane per certi versi, che la rendono assolutamente unica.
Anche Alberto Burri rispose alla chiamata alle arti, ma scelse Gibellina Vecchia come luogo della sua opera. Perché?
Alberto Burri, artista umbro molto importante nel mondo dell'arte italiana del Novecento, giunse negli anni Ottanta a Gibellina ma non amò il nuovo paese e si fece accompagnare sulle rovine della vecchia città. Ne rimase affascinato e decise che era quello il posto dove avrebbe dato il suo contributo artistico. Così progettò il Grande Cretto.
Burri è un artista famoso proprio per i suoi cretti, ovvero superfici scabre che presentano grandi incisioni che esprimono plasticità e, secondo alcuni, delle ferite. L'artista progettò e successivamente realizzò una sorta di sudario di cemento che ricopre l’intero abitato della vecchia Gibellina e che ripercorre, attraverso i tagli tipici dei cretti, le vie e le piazze della vecchia città, di fatto ricostruendone la topografia. Al posto delle case, enormi blocchi di cemento bianco che coprono la collina su una superficie di 80.000 metri quadrati. L'opera venne realizzata tra il 1984 e il 1989, ma solo in parte. Burri purtroppo non vide mai terminato il suo progetto perché morì nel 1995. Ma la Regione Sicilia si prese l’impegno di terminare la sua opera, che fu completata secondo il progetto originario nel 2015.
Cosa si prova ad attraversare quello che, dall'alto, sembra un silenzioso dedalo bianco?
È un’opera unica e rappresenta un viaggio suggestivo in una città che non c’è più. Attraversare il Cretto, magari al tramonto, dà vita ad emozioni uniche ripercorrendo solchi che rappresentano le vie e la vita della vecchia città. In silenzio, è il luogo stesso che sussurra la sua storia per una memoria perenne.
Come disse Leonard Cohen:“C'è una crepa in ogni cosa ed è da lì che entra luce”.