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L’immagine è quella ormai “classica”, la stessa che vediamo da qualche anno sui libri di scienze dei nostri ragazzi. Una grande “macchia” blu, grande più dell’intero continente antartico, che colora il nostro Pianeta.

È il famigerato “buco dell’ozono”, quel fenomeno che è in realtà qualcosa di piuttosto diverso da un vero e proprio buco e che abbiamo iniziato a conoscere a partire dagli anni Ottanta. Gli anni “mitici”, quelli della caduta del muro di Berlino e dell’arrivo al cinema degli effetti speciali, con i loro colori sgargianti diventati presto leggenda. Gli anni delle acconciature vaporose e cotonate, delle bombolette spray. Quelle stesse bombolette alimentate, insieme ai cicli frigoriferi, da composti chimici noti con il nome di clorofluorocarburi, in sigla CFC, che, nel tempo, sono stati individuati come i responsabili di quella grande “macchia” blu sopra l’Antartide.

Per scoprire qualcosa di più su questo buco (che in realtà un buco non è), sul suo stato di salute e sulle previsioni che la scienza è in grado di fare circa le condizioni dell’atmosfera terrestre per i prossimi decenni, abbiamo intervistato Giovanni Muscari, ricercatore dell’INGV da moltissimi anni in prima linea nell’osservazione e nella misurazione dei livelli di ozono in stratosfera.

Giovanni, partiamo dalle basi. Che ruolo ha l’ozono nell’atmosfera del nostro Pianeta?

Iniziamo col dire che l’ozono è un gas distribuito in atmosfera prevalentemente (per circa il 90% del totale) in quella che chiamiamo stratosfera, una regione situata tra i 10 e i 50 km di altitudine, al di sopra della quota di crociera in cui viaggiano gli aerei, dell’area di formazione delle nubi e di tutti i fenomeni meteorologici. Il restante 10% si trova invece in troposfera, ovvero nella parte più bassa dell’atmosfera.

L’ozono presente in troposfera è una componente nociva prodotta dall’inquinamento causato dall’uomo, lesivo per i nostri tessuti polmonari. Fortunatamente si tratta di una percentuale decisamente minoritaria, come abbiamo visto: la maggior parte dell’ozono agisce invece nella stratosfera come “schermo” per il nostro Pianeta, una sorta di scudo protettivo naturale contro i raggi UV più potenti e intensi emessi dal Sole. 

Cosa intendiamo con l’ormai celebre - e talvolta abusata - espressione “buco dell’ozono”?

Effettivamente l’espressione “buco dell’ozono” rende l’idea ma non corrisponde al vero. Quello che intendiamo dal punto di vista scientifico con questa espressione “giornalistica” è in realtà un assottigliamento dello strato di ozono che si verifica con regolarità sopra la regione antartica.

Dobbiamo immaginare, infatti, uno strato di ozono distribuito abbastanza uniformemente intorno a tutto il Pianeta. Sopra la regione antartica, durante la primavera locale e in particolare nel mese di ottobre, notiamo un assottigliamento di questo strato dovuto alla distruzione di un ingente quantitativo di molecole di ozono. Il risultato è quello che “visivamente”, per la sua forma circolare, è stato da subito associato a un buco.

C’è, quindi, una “stagionalità” nell’evoluzione di questo fenomeno di assottigliamento…

Sì, si tratta di un fenomeno stagionale. Durante l’inverno e la primavera antartici si innescano una serie di processi chimico-fisici che ogni anno portano all’assottigliamento localizzato sopra l’Antartide dello strato di ozono che, poi, col finire della stagione primaverile, altri processi tendono a “ripristinare”.

Di che tipo di processi si tratta?

Durante l’inverno australe si forma sopra l’Antartide un vortice molto intenso, caratterizzato da venti fortissimi che circolano intorno al continente antartico a quote comprese tra i 10 e i 30 km, che isola l’aria al suo interno dall’aria più calda delle medie latitudini.

Poiché il Sole nelle regioni polari tramonta alla fine dell’autunno e risorge solo con l’inizio della primavera, durante l’inverno l’aria all’interno di questo vortice polare è completamente al buio e raggiunge temperature molto basse. Solo in queste condizioni si formano, a quote stratosferiche, delle nubi molto particolari, simili ai cirri, dette “nubi stratosferiche polari”, storicamente definite dagli esploratori “nubi madreperlacee” per il loro bellissimo colore roseo.

Sulla superficie di queste nubi si innescano una serie di processi chimici detti “di attivazione”: composti di bromo e di cloro di origine antropica che si trovano in atmosfera passano da uno stato di molecole inattive a una forma molto reattiva. Le molecole di cloro (Cl2), ad esempio, a quel punto aspettano solo l’ultimo “ingrediente” della ricetta, ovvero la luce solare. Appena sorge nuovamente il Sole, con l’inizio della primavera, queste molecole vengono infatti fotodissociate dai raggi solari: gli atomi di cloro (Cl) generati reagiscono molto velocemente con l’ozono, distruggendolo, trasformando la molecola di ozono (O3) in molecola (O2) e atomi (O) di ossigeno. Si tratta di un processo cosiddetto “catalitico”, in cui un singolo atomo di cloro può distruggere fino a oltre 10.000 molecole di ozono.

Questo complesso processo di distruzione delle molecole di ozono da parte degli atomi di cloro genera, quindi, tra la fine dell’inverno e l’inizio della primavera antartica, quell’assottigliamento dello strato di ozono noto come il famigerato “buco”.

Questa distruzione permane per tutta la durata di vita del vortice polare sopra l’Antartide, ovvero finché i forti venti del vortice continuano ad isolare l’aria all’interno da quella più mite delle medie latitudini: quando sorge il Sole e l’aria all’interno inizia a riscaldarsi, piano piano il vortice stesso perde forza e iniziano a venire meno gli ingredienti della nostra ricetta. Dalla primavera all’estate australe, quindi, l’aria all’interno del vortice, ormai povera di ozono, inizia a mescolarsi con quella delle medie latitudini ricca di ozono e questo “buco” viene diluito, apparentemente “richiudendosi”. 

Il ripetersi anno dopo anno della distruzione di ozono sopra l’Antartide ha portato a una diminuzione massima di ozono registrata intorno all’anno 2000 di circa il 5% a livello globale. Si tratta di una percentuale importante, poiché spostandoci dalle regioni polari alle zone tropicali, dove l’intensità dei raggi UV provenienti dal sole è di gran lunga maggiore, una diminuzione dell’efficacia del nostro “scudo” di ozono può avere delle conseguenze anche molto serie in termini di tutela della salute umana.

Possiamo quindi dire che è a causa di questa complessa “ricetta”, che richiede ingredienti specifici, che la localizzazione di questo assottigliamento dello strato di ozono avviene solamente sopra le regioni polari, e in particolare sopra l’Antartide?

Assolutamente sì. Tra l’altro è un fenomeno che si verifica con intensità sensibilmente diverse anche a seconda che si tratti della regione polare settentrionale oppure di quella meridionale.

Sopra l’Antartide è un fenomeno che si verifica in modo molto intenso e regolare, anno dopo anno, in particolare intorno al mese di ottobre, ed è l’assottigliamento “per eccellenza”, quello noto già dai primissimi anni Ottanta, che destò sin da subito preoccupazione tra gli addetti ai lavori.

Il vortice polare artico, invece, non raggiunge quasi mai le intensità di quello “fratello”: resta più debole, meno impermeabile all’aria mite delle medie latitudini e tende a “rompersi” quasi subito. La formazione delle nubi stratosferiche polari, elemento fondamentale nel processo di distruzione dell’ozono, avviene, quindi, ma meno intensamente e con meno regolarità, a seconda di tutta una serie di complessi processi dinamici che avvengono in atmosfera.

A cosa sono dovute queste differenze tra i due vortici polari?

Principalmente al fatto che intorno al continente antartico c’è l’oceano mentre in Artide sono invece presenti catene montuose (ad esempio quella della Scandinavia) ed il plateau ghiacciato della Groenlandia. Il vortice polare artico quindi, a differenza di quello antartico, viene disturbato dalle cosiddette “onde planetarie”, ovvero da fenomeni di dinamica dell’aria generati dalla morfologia del terreno presente nell’emisfero settentrionale, e rimane generalmente più debole del vortice antartico.

Nonostante questo si registrano anni in cui anche il vortice artico risulta particolarmente intenso poiché relativamente poco disturbato e, in quei casi, la distruzione di ozono nell’emisfero settentrionale può raggiungere livelli che si avvicinano a quelli che si registrano regolarmente nell’emisfero meridionale: lo scorso inverno, quello del 2019-2020, è stato uno di quei casi.

Quanto c’è di “naturale” e quanto di “antropico” nel fenomeno di assottigliamento dello strato di ozono sopra le regioni polari?

Si tratta di un processo completamente naturale, tranne che per la presenza di cloro, bromo e altri composti chimici che non dovrebbero essere in stratosfera e che, invece, ci abbiamo messo noi.

Lo abbiamo fatto grazie o, per meglio dire, a causa dell’intensa produzione di clorofluorocarburi (CFC) che, a partire dagli anni Trenta e sempre più nei decenni seguenti, sono stati utilizzati nella produzione industriale, ad esempio all’interno dei condizionatori o come propellenti nelle bombolette spray.

Per un lungo periodo si è pensato che questi CFC fossero completamente inerti: in troposfera, ovvero nella parte bassa dell’atmosfera, nell’aria che noi respiriamo, lo sono realmente; quello che non si era notato è che questi composti hanno un tempo di vita così lungo in troposfera che gli consente, nel tempo, di “migrare” verso quote più alte dell’atmosfera, fino per l’appunto alla stratosfera. Lì, con la radiazione solare molto più intensa, i CFC vengono fotodissociati e ciò genera molecole che, una volta libere, sono estremamente reattive, come abbiamo visto. 

A partire dagli anni Ottanta l’opinione pubblica e la politica hanno iniziato a interessarsi attivamente al problema del “buco dell’ozono”. Qual è stato il passo più importante a segnare una decisa inversione di tendenza nell’utilizzo di prodotti industriali nocivi?

Quello che è avvenuto a proposito della distruzione dello strato di ozono, e che sarebbe particolarmente auspicabile anche in questi anni in cui si dibatte dei cambiamenti climatici e di quello che andrebbe fatto a livello politico per riuscire ad arginare l’aumento della temperatura al suolo che si sta verificando, è che scienza e politica riuscirono a trovare insieme una soluzione che sta finalmente portando, oggi, a una “guarigione” del sistema Terra. Questo è stato possibile dopo alcuni anni di consultazioni, culminati in particolare nel decisivo Protocollo di Montreal del 1987, il primo di una serie di accordi internazionali siglati da oltre 200 Paesi e volti a sancire l’impegno per una forte riduzione nella produzione e nell’utilizzo dei CFC. Da solo il Protocollo di Montreal non sarebbe stato sufficiente, ma è stato sicuramente il primo e decisivo passo per arrivare dove siamo oggi. 

Le ultime proiezioni indicano un ripristino completo dello strato di ozono nelle aree polari entro il 2060. Questo dato è quindi l’ultimo risultato di quegli accordi internazionali? 

Sì, decisamente. È solo grazie a questi trattati internazionali, siglati più di 30 anni fa, che possiamo apprezzare oggi (e potremo apprezzare ancor più in futuro) risultati di questo genere.

Questo perché questi composti hanno un tempo di residenza in atmosfera molto lungo: stimando il 1990 come l’anno in cui i CFC vennero fortemente ridotti dai nostri utilizzi industriali, il dato da segnalare è che sono stati necessari oltre due decenni per iniziare a notare una prima sensibile diminuzione della loro concentrazione in atmosfera. E solamente negli ultimi 15-20 anni, dopo il picco raggiunto intorno al 2000, abbiamo iniziato a notare che l’assottigliamento dello strato di ozono che si crea sopra la regione antartica non sta più crescendo: ancora dobbiamo registrare però, anno dopo anno, una riduzione dell’intensità e delle dimensioni di questo assottigliamento che sia statisticamente significativa. La cosa importante è che, da allora, ha smesso di aumentare. La strada è quella giusta.

Da quanto tempo ti occupi di questo tema per l’INGV e quali sono le prospettive future dell’Istituto in questo genere di ricerche?

Mi occupo di questa problematica dal 1996, anno di inizio del mio dottorato di ricerca negli USA, all’Università di Stony Brook, New York. Sono arrivato all’INGV nel 2006 e da allora mi sono occupato per l’Istituto dell’aspetto strumentale di osservazione e misura dell’ozono e dei composti chimici implicati nella sua distruzione in stratosfera. Nel 2009 abbiamo installato in Groenlandia, presso l’osservatorio THAAO (Thule High Artic Atmospheric Observatory; http://www.thuleatmos-it.it/) situato vicino la base aerea americana di Thule, degli spettrometri al suolo che misurano i livelli di ozono e di altri composti chimici coinvolti nel ciclo di distruzione dell’ozono e utili a comprendere meglio l’intensità del vortice polare artico.

Per me questo tema è ancora decisamente importante, nonostante molti aspetti scientifici della distruzione dell’ozono siano stati compresi: proprio a causa delle differenze che notiamo tra il vortice polare artico e quello antartico, credo sia molto stimolante continuare a studiare i motivi alla base di questi fenomeni che in Artide sono così variabili per frequenza e intensità. E poi, suonerà banale, ma è indispensabile continuare a misurare la concentrazione dell’ozono in atmosfera per sancire il ripristino della sua “buona salute”: è qualcosa che non si può fare con i modelli numerici.artide6

Come INGV lavoriamo a Thule in collaborazione con colleghi italiani appartenenti ad altri Enti di Ricerca, come l’ENEA, l’Università Sapienza di Roma e l’Università di Firenze. Lavoriamo in stretta cooperazione per gestire insieme al meglio i numerosi strumenti (più di 10) installati lì, controllare il loro corretto funzionamento, manutenerli quando necessario, reperire i fondi necessari per finanziare l’attività scientifica, analizzare e pubblicare i dati raccolti. 

L’attività dell’Istituto presso il THAAO ha come prospettiva principale, quindi, quella di proseguire nel monitoraggio dello strato di ozono con gli strumenti già in nostro possesso, tenendoli in funzione e aggiornati da un punto di vista tecnologico. Parallelamente, però, l’INGV nel corso degli ultimissimi anni ha iniziato insieme ad ENEA a occuparsi a Thule anche dei cambiamenti climatici in corso in Artide, in particolare dell’impatto che l’aumento di nubi, precipitazioni e scioglimento del ghiaccio possono avere sul clima nelle aree polari. Nel corso dei prossimi 3 anni l’INGV installerà inoltre stazioni sismiche e mareografi presso un importante ghiacciaio vicino Thule, per monitorare come lo scioglimento e la rottura in mare dei ghiacciai possa influenzare la costa e le popolazioni groenlandesi che vi abitano. 


Link all’approfondimento sul Blog INGVAmbiente