È stupefacente pensare come tutto ciò che ci circonda e che per noi è un solido punto di riferimento sia, in realtà, in costante mutamento. Le montagne, i mari, gli oceani: tutto il nostro Pianeta si muove, cambia, evolve da milioni di anni. Come semplici esseri umani non siamo in grado di apprezzare a occhio nudo questa infaticabile danza, ma la scienza ci ha dotati di strumenti con i quali poter interrogare il paesaggio che ci circonda e farci raccontare la sua storia.
Una di queste storie ci ha portati fino in Sudamerica, al cospetto della maestosa Cordigliera delle Ande: una catena montuosa che sembra non avere fine, serpeggiando lungo tutto il margine occidentale del continente sudamericano. Dai fiordi glaciali della Terra del Fuoco fino all’istmo di Panama, attraversando i territori inca peruviani, i maestosi vulcani dell’Ecuador e la colorata Colombia.
Un team internazionale di ricercatori ha ‘interrogato’ il tratto ecuadoriano della catena andina, scoprendo che la sua caratteristica forma arcuata è in realtà il frutto di un lungo e antichissimo processo di deformazione delle rocce che compongono quelle montagne. Per saperne di più abbiamo intervistato Fabio Speranza, ricercatore dell’INGV nonché Direttore della Sezione Roma2 dell’Istituto, che ha preso parte allo studio sulla formazione del cosiddetto ‘oroclino ecuadoriano’ e ci ha guidati alla scoperta dell’origine della tipica forma arcuata delle Ande.
Fabio, partiamo da un quadro generale: quali sono le principali caratteristiche geologiche del Sudamerica?
Il Sudamerica è in gran parte una placca stabile, ciò che in gergo definiamo un ‘cratone’. Nella sua zona orientale, infatti, la ‘situazione geologica’ è del tutto tranquilla, senza vulcani né terremoti: è un’area antichissima (oltre un miliardo di anni) che si è deformata circa 200 milioni di anni fa con la frammentazione di Pangea e successivamente, circa 140 milioni di anni fa, con la separazione dall’Africa e la formazione dell’Atlantico meridionale (che, peraltro, si sta ancora formando con tassi di espansione di alcuni cm per anno).
La parte occidentale del Sudamerica, viceversa, è caratterizzata dalla lunghissima catena montuosa delle Ande, lunga circa 8.000 chilometri. Le Ande si sono formate al di sopra di una zona di subduzione, vale a dire di collisione e sprofondamento di due placche tettoniche (la placca antartica e quella di Nazca) al di sotto del continente sudamericano. Ciò determina, tipicamente, la presenza di montagne, terremoti e vulcani: le Ande, non a caso, sono tra le principali catene montuose del mondo, e la zona è nota per essere stata epicentro di alcuni tra i più grandi terremoti della storia dovuti proprio alla convergenza tra placche (pensiamo, ad esempio, al terremoto di magnitudo 9.5 - il più forte in assoluto mai registrato dai sismografi- che nel 1960 colpì Valdivia, in Cile).
La catena andina è caratterizzata da una parte centrale costituita da un grande plateau, un altopiano di circa 4.000-5.000 metri di altezza chiamato Altiplano-Puna che è secondo per altezza e dimensioni solo al Tibet, mentre le quote diminuiscono procedendo sia verso sud che verso nord. Non dobbiamo poi dimenticare tutti i vulcani, formatisi per la risalita del magma a seguito dei fenomeni di subduzione, che portano in superficie numerosi minerali che, a loro volta, alimentano l’attività mineraria ed estrattiva della zona.
Accanto a queste caratteristiche ‘note’ del Sudamerica e, in particolare, della catena andina, ce ne sono però delle altre che ancora devono essere studiate a fondo: ad esempio, la dinamica della formazione di questa catena montuosa e, in particolare, della sua parte centrale, caratterizzata da una forma arcuata (in gergo ‘oroclino boliviano’) proprio in corrispondenza dell’Altiplano-Puna. Noi, con il nostro lavoro, ci siamo soffermati un pochino più a nord, su un’altra curvatura della catena andina finora meno studiata, che abbiamo battezzato ‘oroclino ecuadoriano’.
Cosa ha evidenziato questo vostro studio?
Il nostro studio ha evidenziato una rotazione oraria di 20° negli ultimi 10 milioni di anni della Cordigliera occidentale ecuadoriana. Inoltre, studiando la Valle interandina che suddivide la catena, abbiamo scoperto che questa depressione si è formata nello stesso periodo: poiché le rotazioni delle catene montuose si generano a causa del sovrascorrimento di una parte della crosta su un’altra adiacente, ipotizziamo che questa valle sia proprio il prodotto di quel processo.
La forma della Cordigliera tra Colombia e Perù, peraltro, sembra proprio ‘mimare’ quella del cratone “Amazonia” (cioè il blocco più grande del cratone sudamericano) che la delimita est: si tratta di una zona molto vasta e molto rigida, vecchia circa un miliardo di anni. Quindi è come se, nel gioco della morra cinese, la carta avvolgesse il sasso. In questo caso, con la rotazione, la catena andina ha ‘avvolto il sasso’, ovvero il cratone Amazonia, assumendone la forma.
Come può una catena montuosa ruotare e cambiare forma?
A differenza di quanto si può pensare, le catene montuose non sono assolutamente ‘fisse’ e immutabili: mostrano, invece, grandi evoluzioni nel tempo proprio perché si trovano in zone di convergenza tra placche. Nel corso di milioni di anni possono infatti verificarsi delle ‘migrazioni’ di blocchi tettonici per centinaia o migliaia di chilometri, il ché comporta delle inevitabili deformazioni della crosta terrestre visibili nelle catene montuose.
Esistono altri esempi, nel mondo o in Italia, di catene montuose il cui orientamento è cambiato nel corso dei milioni di anni?
Assolutamente sì, di esempi di questo genere ce ne sono moltissimi nel mondo e si manifestano a seguito di due possibili scenari: quando si ha un blocco di crosta molto rigido attorno al quale la catena montuosa arriva a ‘piegarsi’ e a modellarsi (come nel caso che abbiamo studiato in Ecuador), oppure quando un piccolo pezzetto di placca, detto ‘slab’, va in subduzione per la propria gravità, arretrando e facendo sì che la catena montuosa ‘migri’ seguendolo e formando un arco molto stretto.
Di questo secondo scenario abbiamo un esempio spettacolare nel Mediterraneo: 30-40 milioni di anni fa, infatti, l’Appennino nel tratto dell’odierno arco formato da Sicilia, Calabria, ed Appennino meridionale era una catena montuosa rettilinea posizionata molto più a nord-ovest, lungo il margine catalano-provenzale. Progressivamente questa catena ha migrato deformandosi notevolmente, con l’attuale Calabria che ha ‘viaggiato’ per circa 1.000 chilometri e si è posizionata all’apice dell’arco attuale, nella sua caratteristica forma arcuata.
Che tecniche si utilizzano per ‘scoprire’ e studiare il passato delle nostre montagne?
Una tecnica in grado di fornire moltissime informazioni è sicuramente il paleomagnetismo, che misura la magnetizzazione acquisita dalle rocce al momento della loro formazione.
Questa magnetizzazione viene acquisita con la direzione orientata verso il Nord geografico, perché il campo magnetico terrestre ha tendenzialmente puntato sempre in quella direzione (tranne che nei periodi di inversione magnetica nei quali puntava verso Sud geografico). Altra informazione importante è quella sull’inclinazione magnetica, che dipende dalla latitudine: all’Equatore l’inclinazione è orizzontale, poi aumenta diventando verticale ai Poli.
Grazie al paleomagnetismo possiamo misurare in laboratorio la magnetizzazione delle rocce e capire come deviano rispetto al Nord (o al Sud), per comprendere quale è stata nel tempo la rotazione di un determinato blocco roccioso e la sua deriva in latitudine: se un blocco presenta un’inclinazione magnetica orizzontale significa che un tempo si trovava all’Equatore; viceversa, un’inclinazione verticale indica una sua originaria localizzazione spostata più verso i Poli.
La campagna di raccolta dati in Ecuador è stata piuttosto lunga, circa 20 giorni: cosa ti ha colpito maggiormente di quei territori e cosa è rimasto (all’uomo oltre che allo scienziato) una volta tornati a casa?
Sicuramente restano gli scenari, che sono spettacolari. In particolare tutta la parte dei vulcani dell’Ecuador, il Chimborazo, il Cotopaxi, i grandi altipiani, la foresta tropicale… Ma ovviamente restano anche i contatti umani, le persone e le esperienze.
Come dico sempre a mia figlia, ogni viaggio è fatto di esperienze positive e altre negative: la cosa importante è tenere strette quelle positive. Nel caso di questa campagna, tra le esperienze positive metterei l’accoglienza e l’amicizia dimostrata dalla gente del posto. Tra quelle negative, invece, il fatto di essere stati praticamente sequestrati per una giornata da un gruppo di indios che temeva stessimo andando lì per aprire una miniera…
Ma ogni volta che si viaggia credo ci si renda conto che, anche nei posti più remoti al mondo, gli uomini hanno delle problematiche e delle caratteristiche che in un modo o nell’altro finiscono sempre per essere assimilabili a quelle di cui ognuno di noi fa esperienza ogni giorno. Ecco, in questo senso credo che il razzismo sia figlio dell’ignoranza e dell’essere stati sempre a casa propria. Viaggiare per me è importante anche per questo, per rendersi conto di come, tutto sommato, gli uomini e le loro logiche siano simili ovunque e non c’è motivo di aver paura dell’altro.
Sono previsti dei “passi futuri” per approfondire le tematiche affrontate con questo studio?
Il bello della ricerca è che, nel migliore dei casi, uno studio risolve un problema, ma ne apre altri dieci. Quindi la risposta è sì, sicuramente abbiamo in programma di proseguire il nostro lavoro lì; però paradossalmente una ricaduta positiva dello sconvolgimento portato dal Covid è stata il dover tornare a occuparci di questioni molto più vicine a noi. Intendo dire che, mentre negli ultimi anni ci eravamo focalizzati più su problematiche globali, nell’ultimo periodo non potendo andare all’estero siamo tornati ad affrontare tematiche scientifiche più ‘local’ che avevamo lasciato da parte.
Nello specifico ci siamo rimessi a studiare il blocco calabro di cui ho parlato prima, che circa 30 milioni di anni fa era localizzata vicino all’attuale Provenza e che nel tempo ha viaggiato nel Mediterraneo, suscitando in noi un grandissimo interesse, e anche la Sardegna che, come la Calabria, un tempo era attaccata al margine provenzale e tra i 30 ed i 15 milioni di anni fa si è distaccata dalla placca europea ed ha subito una rotazione antioraria di 90°, provocando a retro l’apertura del mare algero-provenzale.
Diciamo che lo studio che abbiamo condotto in Ecuador ci ha permesso di comprendere dei meccanismi fondamentali che possiamo ora applicare in giro per il mondo, tornando sempre indietro per dei necessari feedback. E facendo in modo che il nostro bagaglio di conoscenze si arricchisca ogni volta di un pezzetto in più: il bello del progresso, in fondo, è proprio questo.