Newsletter n.3
Quando le precipitazioni modellano le nostre montagne
- Dettagli
- Scritto da Sara Stopponi
Un pianeta sempre in movimento. Una grande Casa, la nostra, che sin da bambini abbiamo imparato essere una sorta di immenso puzzle coperto di oceani e foreste che si muove lentissimamente sotto i nostri piedi. Movimenti piccoli, assolutamente impercettibili all’occhio umano, che avvengono in tempi lunghissimi, geologici. Tranne che in alcune occasioni, come i terremoti. In quei casi, infatti, il movimento di deformazione della crosta terrestre è talmente repentino e violento da essere percepito da moltissime persone.
Ma i terremoti sono le uniche manifestazioni dei movimenti che avvengono sotto le nostre suole? In realtà no! Sembra incredibile ma alcune recenti ricerche hanno mostrato come anche altri fenomeni assolutamente naturali, come le precipitazioni, possono influire nelle deformazioni della crosta. Alcune rocce calcaree di cui si compongono molti massicci montuosi della nostra penisola, infatti, mostrano un comportamento che risponde in un modo assolutamente peculiare alle sollecitazioni indotte dagli accumuli di acqua legati alla pioggia e alla neve.
Ne abbiamo parlato con Nicola D’Agostino, ricercatore dell’INGV che ha seguito in prima persona questa importante scoperta e che ci ha spiegato meglio il funzionamento di questo fenomeno.
Nicola, la deformazione della crosta terrestre vede la sua massima espressione, come sappiamo, nei terremoti. Quali sono però le altre possibili manifestazioni di questa deformazione?
Esattamente, i terremoti sono l’espressione primaria della deformazione della crosta terrestre: si tratta dell’improvviso rilascio elastico della deformazione che si accumula per il movimento della crosta. Questa deformazione, quindi, nella maggior parte dei casi viene rilasciata in maniera sismica. Tuttavia, è possibile un rilascio anche in maniera a-sismica, ovvero senza che si verifichi un terremoto.
Questa è stata una importante scoperta effettuata grazie al GPS: si è visto, infatti, che in particolare in alcune zone di subduzione (ovvero di “scivolamento” di una placca tettonica sotto l’altra) la deformazione anziché essere rilasciata nell’arco di secondi attraverso un evento sismico, può essere rilasciata nell’arco di alcune settimane.
In che modo il GPS aiuta nella misurazione delle deformazioni della crosta?
Il GPS è uno strumento estremamente versatile che, ad oggi, noi tutti utilizziamo quasi quotidianamente grazie agli smartphone per orientarci e condividere con i nostri contatti la nostra posizione. Questo stesso strumento può però essere usato in maniera più sofisticata utilizzando delle stazioni fisse, cioè ben ancorate alla crosta, e raggiungendo precisioni di qualche millimetro sulla posizione. Questo avviene grazie a una complessa infrastruttura, un sistema di satelliti orbitanti intorno alla Terra (principalmente americani, ma anche europei, russi e cinesi, non tutti ancora completamente pronti per l’utilizzo scientifico ma in via di perfezionamento entro i prossimi anni) che inviano dei segnali che, raccolti a terra dalle stazioni fisse, vengono poi elaborati.
In Italia abbiamo una infrastruttura GPS di questo genere?
Assolutamente sì, la nostra rete GPS si chiama RING, Rete Integrata Nazionale GPS, ed è una delle reti scientifiche più avanzate: consta di oltre 200 stazioni sparse su tutto il territorio nazionale, spesso collocate insieme alle stazioni sismiche in particolar modo nelle aree sismogenetiche, ovvero in quelle zone d’Italia in cui si sta accumulando la deformazione della crosta.
Sulla nostra rete GPS sono stati fatti dei lavori importanti negli ultimi anni e i dati che questa rete raccoglie vengono poi distribuiti liberamente. Questo è un aspetto molto interessante dal punto di vista scientifico e metodologico, poiché la distribuzione dei dati delle nostre stazioni ci consente di averli a disposizione per poi integrarli con quelli delle altre reti mondiali.
Tornando ai rilasci a-sismici della deformazione della crosta terrestre, in quali condizioni risultano più probabili e più diffusi?
Abbiamo osservato questo genere di rilascio a-sismico della deformazione in particolar modo negli acquiferi carsici. Gli acquiferi carsici sono dei volumi di roccia che ospitano l’acqua: ammassi rocciosi fratturati in cui l’erosione chimica legata alla debole acidità delle acque piovane ha creato nel tempo delle fessure, delle cavità importanti. Questi volumi rocciosi sono quindi in grado di accumulare grandi quantità d’acqua, e questa è una caratteristica tipica soprattutto dell’Appennino. Molti dei nostri massicci montuosi sull’Appennino sono infatti costituiti da montagne calcaree, che di frequente ospitano questo tipo di acquifero.
Come si è arrivati a studiare gli acquiferi carsici per indagare la deformazione a-sismica della crosta terrestre?
Questo studio è nato in maniera un po’ casuale come spesso avviene nella ricerca scientifica: una studentessa di dottorato che collaborava con noi all’INGV, Francesca Silverii – oggi al Centro tedesco di ricerca per le Geoscienze (GFZ), dove continua a lavorare su temi analoghi – aveva iniziato una tesi sulla deformazione della crosta a seguito del terremoto de L’Aquila del 6 aprile del 2009. Avevamo cominciato a studiare le registrazioni e le serie temporali delle stazioni lì localizzate cercando un segno di deformazione a seguito di quel terremoto (un tipo di deformazione chiamata “post-sismica”).
Dopo poco, però, ci siamo resi conto che c’era tutta una serie di segnali non compatibili solamente con la deformazione post-sismica, ma che indicavano qualcosa di diverso. Erano effettivamente legati alla deformazione degli acquiferi carbonatici della zona in funzione della loro ricarica. Questi acquiferi, infatti, si ricaricano stagionalmente in base alle precipitazioni piovose e nevose: quello che abbiamo scoperto è che le serie temporali di movimento della crosta registrate dalle stazioni GPS ricalcavano esattamente l’andamento della ricarica degli acquiferi, che è variabile di anno in anno, con anni particolarmente secchi o siccitosi e altri anni più umidi. Questo è stato, per noi, un risultato davvero inaspettato.
Dove sono localizzati questi acquiferi sul territorio nazionale?
Principalmente in Appennino, come dicevamo, ma anche nelle Alpi orientali e nel Carso, l’altopiano roccioso calcareo esteso tra Friuli Venezia Giulia, Slovenia e Croazia che dà il nome al fenomeno.
Che tipo di deformazione subiscono e come “funziona” questa deformazione?
Si tratta di una deformazione prevalentemente orizzontale, che mostra un’espansione di questi massicci carbonatici in funzione della ricarica: più alta è la ricarica di acqua, maggiore è la deformazione dei massicci. In altre parole, maggiori sono le precipitazioni, più evidente risulterà la deformazione rocciosa. La cosa interessante è che questa deformazione sembra sovrapporsi e modulare l’intensità della deformazione tettonica. La deformazione tettonica, cioè quella legata al movimento delle placche, viene normalmente assunta come lineare nel tempo, cioè abbastanza stabile e omogenea. Quello che abbiamo notato è che queste deformazioni di origine idrologica modulano l’intensità della deformazione tettonica. Di questo abbiamo avuto una conferma anche dalla sismicità.
Infatti, in zone monitorate in maniera molto accurata da reti sismiche locali, come la zona della faglia dell’Irpinia, siamo riusciti a vedere come la sismicità espressa dal numero di terremoti di piccola magnitudo sostanzialmente rispecchi lo stesso fenomeno: quando la deformazione idrologica è più intensa si nota un numero maggiore di piccoli terremoti.
Questa è stata una osservazione ulteriore che ci ha suggerito come questo fenomeno di deformazione idrologica non sia superficiale ma interessi la crosta almeno nei suoi primi chilometri di profondità. È come se fosse un grande esperimento scientifico che la natura ci permette di portare avanti a cielo aperto e che ci permette di studiare come i sistemi di faglia rispondono alle variazioni temporali delle forze che agiscono nella crosta.
Quali saranno i prossimi passi in questo genere di ricerca?
Dopo aver condotto questi primi studi abbiamo cercato collaborazioni anche con ricercatori attivi in altre branche della ricerca scientifica. In questo momento stiamo lavorando nell’ambito di un progetto Prin finanziato dal Ministero dell’Università e della Ricerca: si tratta di un progetto di ricerca sui fluidi nella crosta terrestre nell’ambito del quale è stata finanziata un’intera unità di ricerca proprio su questi aspetti.
Stiamo lavorando anche con dei sismologi francesi poiché questo fenomeno sembra estendersi anche alla misurazione della variazione della velocità delle onde sismiche nel tempo: ci sono degli approcci abbastanza innovativi che permettono di studiare la variazione della velocità delle onde sismiche nella crosta terrestre, e i primi risultati sono piuttosto incoraggianti. È uno studio in progress che sono sicuro darà dei risultati molto interessanti.
Noi in Italia abbiamo la fortuna di beneficiare di una rete sismica molto importante e molto all’avanguardia che, unitamente alla rete geodetica, ci consente di effettuare degli studi estremamente complessi e di esplorare vari aspetti di materie, come quella geologica e quella sismologica, il cui studio prosegue incessantemente giorno dopo giorno.
Link all’approfondimento sul Blog INGVAmbiente
In copertina: Vista da Nord del massiccio del Monte Sirente. La spessa sequenza di calcari mesozoici, fortemente fratturati e carsificati, costituisce la tipologia litologica preferenziale per lo sviluppo di importanti acquiferi carsici. (Ph: Nicola D’Agostino)