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Monte Saint Helens: l’eruzione che ha cambiato la storia della vulcanologia
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- Scritto da Sara Stopponi
Può la realtà superare di gran lunga la più fervida immaginazione? In molti casi sì, e la storia del Monte Saint Helens non può che confermarlo.
È la mattina del 18 maggio del 1980, una mattina primaverile apparentemente tranquilla come tante altre, ma non per lo Stato di Washington, negli USA: qui, alle ore 8:32, una violentissima esplosione cancella l’intero fianco di un vulcano, il Monte Saint Helens, tra i più attivi dell’intero continente nord-americano.
Un’eruzione che passerà alla storia, segnando uno spartiacque fondamentale nella vulcanologia moderna e divenendo una vera e propria leggenda che ha affascinato generazioni di vulcanologi (e non solo).
Dietro questa spettacolare eruzione, di quelle cui Kant avrebbe attinto per illustrare il suo concetto di “sublime”, si intrecciarono le storie incredibili di un gruppo di giovani vulcanologi americani, tanto entusiasti del loro lavoro da legare indissolubilmente il loro destino a quello della montagna.
Abbiamo intervistato Tullio Ricci, vulcanologo dell’INGV e grande appassionato del Monte Saint Helens, per farci accompagnare in questo avventuroso viaggio alla scoperta di un’eruzione che sembra uscita dalla penna di un romanziere ma che, invece, ha realmente cambiato per sempre la storia della vulcanologia.
Tullio, perché quella del Monte Saint Helens del 18 maggio 1980 viene ricordata come l’eruzione che ha cambiato la storia della vulcanologia?
Per diversi motivi, tutti legati tra loro. Innanzitutto l’eruzione del Saint Helens è stata la prima grande eruzione esplosiva di cui i vulcanologi moderni siano stati testimoni. Questo evento ha richiesto uno sforzo di monitoraggio e integrazione multidisciplinare probabilmente mai osservato prima, gettando le basi per la vulcanologia attuale in cui i dati provenienti da geofisica, geochimica, geodesia, geologia e studi di pericolosità sono strettamente interconnessi e interpretati congiuntamente. Il Saint Helens è stato un laboratorio per lo studio dei precursori, delle dinamiche eruttive esplosive e per l’interpretazione di morfologie presenti in altre aree vulcaniche, come quelle derivanti dai collassi di versante.
Bisogna considerare, inoltre, che prima dell’eruzione del 1980 il Saint Helens non aveva una sua rete di monitoraggio, pur essendo già stato riconosciuto come il vulcano più attivo del Cascade Range, la Catena delle Cascate, negli Stati Uniti nord-occidentali. La stazione sismica più vicina si trovava a qualche decina di chilometri di distanza dal vulcano.
L’eruzione del 1980 fu preceduta da una fase di unrest, di agitazione, caratterizzata da attività sismica e dal rigonfiamento del fianco nord della montagna: segno che il magma si stava accumulando al di sotto della superficie. L’insieme di questi segnali portò lo USGS (il “cugino” statunitense dell’INGV) ad implementare il sistema di sorveglianza del vulcano, sia durante la fase pre-eruttiva, sia nella fase immediatamente successiva all’eruzione.
Tuttavia, al tempo, i colleghi statunitensi avevano quasi esclusivamente esperienza di vulcani effusivi, i classici vulcani hawaiani con colate laviche poco viscose, quasi “turistiche” da osservare. Immaginate cosa deve essere stato ritrovarsi ad avere a che fare con un vulcano il cui fianco settentrionale si rigonfiava al ritmo di 2 metri al giorno e con la successiva esplosione che ha devastato circa 600 chilometri quadrati di foreste e laghi circostanti (equivalente a quasi due volte l’area contenuta all’interno del Grande Raccordo Anulare di Roma, per intenderci) e ha trasformato la montagna in un anfiteatro profondo 500 metri e con un diametro di circa 2 chilometri.
L’eruzione del Saint Helens del 1980, quindi, ha dato avvio a un forte sviluppo tecnologico, con l’implementazione di nuove metodologie (e con l’affinamento di quelle già esistenti) per lo studio della sismicità, della deformazione, della geochimica e del remote sensing, ma anche della comunicazione e collaborazione tra tutti gli attori coinvolti nelle emergenze vulcaniche non soltanto negli USA ma diffusamente in molte altre parti del mondo (come, ad esempio, l’Europa e il Giappone), con l’Italia a giocare un ruolo fondamentale.
Un altro grande passo in avanti fatto a seguito di questa enorme eruzione è avvenuto in risposta ad una delle più grandi tragedie causate da eruzioni vulcaniche in epoca recente. Il 13 novembre del 1985, cinque anni dopo l’eruzione del Saint Helens, eruttò un altro grande vulcano americano, il colombiano Nevado del Ruiz, che provocò oltre 25.000 vittime (per avere una proporzione, le vittime del Saint Helens nel 1980 erano state 57…) a causa delle colate di fango che distrussero la cittadina di Armero e diversi villaggi situati anche a oltre 60 chilometri di distanza dal vulcano. Sulla spinta di quest’altra catastrofe evitabile, grazie all’esperienza acquisita soprattutto nel corso dell’eruzione del Saint Helens, venne creato il Volcano Disaster Assistance Program (VDAP) da parte di USGS e di un'agenzia governativa degli Stati Uniti, un programma volto a fornire competenze e strumentazione a Paesi minacciati da eruzioni vulcaniche per monitorare e affrontare le fasi di unrest e le fasi eruttive. Questo ha portato il VDAP a dare supporto, mitigare il rischio e salvare moltissime vite nel corso di decine di emergenze vulcaniche in decine di Paesi.
Ecco, l’eruzione del Saint Helens del 1980 è stata in un certo senso il “la” per tutto ciò, la scintilla che ha permesso, globalmente, un decisivo upgrade nel monitoraggio e nella sorveglianza vulcanica, ed è per questo che possiamo dire che ha segnato una vera e propria svolta nella storia della vulcanologia.
Cosa accadde esattamente al Saint Helens?
Tutto è iniziato con la comparsa di sismicità a partire dal 16 marzo del 1980, cui si sono aggiunte, dal 27 marzo, esplosioni di modesta energia in area craterica e il concomitante e progressivo rigonfiamento del fianco nord del vulcano. Quest’ultimo fenomeno, in particolare, ha modificato completamente la morfologia della montagna.
Alle 8:32 del 18 maggio è iniziata, con un collasso settoriale, l’eruzione vera e propria: prima un terremoto di M5.2 sotto il vulcano, poi una frana, che ha depressurizzato il sistema vulcanico dando luogo all’esplosione laterale (“lateral blast”) del rigonfiamento sul fianco nord che ha avuto luogo subito prima dello sviluppo della colonna verticale dell’eruzione pliniana che è durata nove ore e ha raggiunto i 25 chilometri di altezza. La velocità massima dell’esplosione laterale ha superato di poco i 1.000 km/h.
L’eruzione è poi proseguita, a fasi alterne, fino all’inizio del 1991 con circa 20 periodi eruttivi.
Prima ci hai detto che all’epoca i colleghi dell’USGS erano “abituati” a vulcani diversi, di tipo effusivo, come quelli delle isole Hawaii. Che tipo di vulcano è, invece, il Saint Helens?
Esatto: mentre i vulcani hawaiani, come il Kilauea e il Mauna Loa, sono i cosiddetti vulcani “a scudo”, il Saint Helens è uno stratovulcano, generato dalla collisione tra due placche tettoniche. In quell’area del nord America la placca oceanica Juan de Fuca “scivola”, andando in subduzione, sotto il continente nord-americano, dando origine alla Catena delle Cascate di cui il Saint Helens fa parte. Il processo di subduzione porta in questo caso alla formazione di magmi che, sfruttando soprattutto la differenza di densità con l’ambiente circostante, risalgono dando origine a questi vulcani situati tra il Canada e gli Stati di Washington, Oregon e California.
Il Saint Helens aveva già prodotto eruzioni simili in passato?
Sì, anche se non abbiamo testimonianze dirette e tutte le informazioni in nostro possesso ci derivano dalla geologia. L’ultima eruzione importante del Saint Helens risaliva al 1857, ma non aveva prodotto nulla di tutto ciò che avvenne nel 1980. Eruzioni simili per eventi a quella del 18 maggio 1980, in grado quindi di generare delle esplosioni laterali, avvennero circa 1000 anni fa: furono due e furono in ogni caso molto più piccole di quella che stiamo ricordando oggi.
Eruzioni più grandi di quella del 1980 di cui esistono tracce geologiche avvennero circa 3.500 anni fa, con un volume stimato 4 volte maggiore rispetto al 1980, e circa 20.000 anni fa. Quest’ultima produsse delle frane il cui spessore è stato in seguito misurato di circa 250 metri, con un volume pressoché doppio rispetto a quello del 1980.
Qual è, oggi, lo stato di questo vulcano?
Oggi il Saint Helens è un vulcano quiescente. Presenta sismicità, degassamento e anomalie termiche meticolosamente monitorate dall’USGS presso il Cascades Volcano Observatory di Vancouver, in Oregon, ma nulla che non sia di ‘ordinaria amministrazione’ per un vulcano come questo.
Ci sono state altre eruzioni dopo il 1980?
Sì, l'ultima fase eruttiva è avvenuta tra il 2004 e il 2008 e, accompagnata da eruzioni esplosive di modesta energia in confronto a quella del 1980, ha portato all’estrusione di duomi lavici all’interno del cratere “spinti” fuori dal vulcano come la pasta da un tubetto di dentifricio. Queste cupole e spine di lava molto viscosa hanno raggiunto altezze di oltre 250 m.
Esistono al mondo altri vulcani che storicamente hanno prodotto eruzioni assimilabili a quella del Saint Helens?
Assolutamente sì, e c’è una storia incredibile dietro tutto questo che lega alcuni degli scienziati più importanti che lavoravano sul Saint Helens!
Nel 1980, immediatamente a nord del Saint Helens vi era un avamposto dello USGS, Coldwater II, situato 10 chilometri all’interno della zona rossa delimitata dalle autorità governative e a circa 10 chilometri dal cratere, da cui gli scienziati potevano osservare e monitorare la deformazione del vulcano, che negli ultimi giorni precedenti all’eruzione era dell’ordine di due metri ogni 24 ore.
Harry Glicken, 22 anni, era il giovane vulcanologo che il 17 maggio 1980, il giorno prima dell’eruzione, era di turno a Coldwater II: quella sera chiese una sostituzione per poter fare ritorno all’Università della California a Santa Barbara per una riunione riguardante il suo dottorato. Al suo posto si offrì Don Swanson, vulcanologo allo USGS, che a causa di un ulteriore impegno contattò un altro giovane vulcanologo, David Johnston (30 anni), mentore di Harry Glicken, che accettò a malincuore la sostituzione e che la mattina del 18 maggio venne letteralmente spazzato via dall’esplosione laterale del vulcano.
La morfologia particolare lasciata dall’eruzione venne in seguito riscontrata anche in altri vulcani, tra cui il Bezymianny, in Kamčatka, per la cui morfologia era stata ipotizzata una genesi simile a quella del Saint Helens.
Harry Glicken, scampato per poche ore all’eruzione del Saint Helens nel 1980, fu una delle 43 vittime dell’eruzione del 3 giugno 1991 del Monte Unzen, in Giappone, insieme ai vulcanologi (e coniugi) francesi Maurice e Katia Krafft.
I Krafft, divenuti celebri nella storia della vulcanologia, sono anche per me particolarmente importanti perché è anche grazie ai loro libri (il primo dei quali mi è stato regalato da mia madre) e ai loro documentari se ho potuto scoprire e coltivare questa mia grande passione.
A proposito dei coniugi Krafft, pensate che mentre morivano sul Monte Unzen nel 1991 un loro video realizzato per sensibilizzare le popolazioni sul rischio vulcanico, “Understanding volcanic hazards” prodotto per IAVCEI e UNESCO, veniva mostrato agli abitanti delle pendici del vulcano Pinatubo, nelle Filippine. Il vulcano stava dando chiari segnali di unrest ma i locali non volevano abbandonare le loro case. Ebbene, dopo aver visto le immagini girate dai due vulcanologi, in moltissimi si convinsero a lasciare la zona (rimase solamente una tribù di indigeni, gli Aeta, che viveva sul vulcano): il Pinatubo eruttò pochissimi giorni dopo, il 15 giugno, provocando enormi devastazioni (e spazzando via la tribù che aveva rifiutato di andar via) con quella che sarebbe stata la seconda più grande eruzione del secolo dopo quella del vulcano Novarupta in Alaska nel 1912.
Durante un viaggio di lavoro alle Hawaii che ho fatto solo pochi mesi prima della grande eruzione del Kilauea del 2018, ho avuto modo di conoscere Don Swanson, uno dei responsabili dello USGS durante l’eruzione del 1980. Si è trattato di un’occasione unica, durante la quale mi sono sentito raccontare in prima persona molte delle storie che avevo letto sul Saint Helens. Dopo l’eruzione del 1980, Don Swanson fu il primo ad andare a cercare David Johnston con un elicottero dell’esercito americano, ma la violenza dell’esplosione aveva cambiato talmente tanto l’aspetto della montagna che non fu in grado di riconoscere immediatamente il punto in cui si sarebbe dovuto trovare il camper del giovane collega, luogo dove nel 1997 è stato realizzato il centro visitatori “Johnston Ridge Observatory”.
Qual è, per un vulcanologo come te, l’aspetto più interessante di questo vulcano e dell’eruzione del 1980?
Direi quello umano e quello scientifico, nella stessa misura. L’aspetto per me scientificamente più interessante dell’eruzione del Saint Helens è sicuramente il lateral blast, l’esplosione laterale del fianco nord della montagna che con la sua forza abbatté tutti gli alberi per decine di chilometri, una violenza inaudita. Umanamente, immaginare un giovane scienziato che si vide arrivare addosso l’esplosione mette davvero i brividi. L’ultimo messaggio inviato da David Johnston quella mattina del 18 maggio dell’80, non appena iniziò la frana, fu: “Vancouver, Vancouver, this is it!”, “Ci siamo!”.
Ho iniziato ad appassionarmi a questa storia nel 1993, quando durante il corso di Geologia alla Sapienza il professor Civitelli ci raccontò la vicenda di questo giovane vulcanologo americano: dietro questa mia passione, quindi, c’è una enorme componente umana. Nel caso di Johnston, pur essendo lui uno dei sostenitori della teoria della possibile esplosione laterale del vulcano (all’epoca non si era mai visto nulla di simile, quindi c’era un grande dibattito scientifico attorno agli sviluppi che l’attività del Saint Helens avrebbe potuto avere), andò comunque sul posto per sostituire un collega. Mostrò una passione e un interesse enormi, che ho ritrovato recentemente anche nell’ultimo libro sul Saint Helens che ho acquistato (l’ultimo di una lunga serie…) che ha proprio Johnston per protagonista: “A hero on Mount St. Helens”.
Devo dire che quando mi sono trovato davanti questo impressionante vulcano, nel febbraio del 2018, sono rimasto senza parole e in un secondo mi è sembrato come di rivivere da protagonista tutto quello che nel corso degli anni avevo letto su tantissimi libri: un’emozione grandissima e indimenticabile.
Link all’articolo di approfondimento sul Blog INGVvulcani: https://ingvvulcani.com/2020/05/18/18-maggio-1980-mt-st-helens-uneruzione-che-ha-cambiato-la-storia-della-vulcanologia/
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