Il prossimo 15 Gennaio ricorrerà il cinquantesimo anniversario del terremoto che nel 1968 sconvolse la Valle del Belice. Le immagini in bianco e nero dei contadini e della povera gente di quel pezzo di Sicilia dimenticato dal grande boom economico dell’Italia degli anni Sessanta, fanno ormai parte di quello che, con un termine discutibile, viene chiamato «immaginario collettivo». 352 i morti, oltre 600 i feriti e 55mila i senzatetto. Un triste bilancio che poteva risultare ancora più grave se il 14 Gennaio, all’ora di pranzo, non ci fosse stata la prima scossa. Per lo spavento molti preferirono trascorrere la notte in macchina o tra le campagne, salvandosi.
Vecchi con le coperte in testa. Donne sui muli con facce spaurite. Bambini scalzi nel fango delle tendopoli. Immagini che tutti abbiamo visto e che commossero molti in quel gelido inverno di quasi cinquant’anni fa, attivando una catena di solidarietà in tutto il Paese che ebbe, però, il limite di durare solo qualche settimana. Da allora in poi la parola «Bèlice» (con l’accento sbagliato dovuto alla pronuncia dei giornalisti dell’epoca) è sinonimo di ritardi, errori, fallimenti e interessi illeciti. La risposta dello Stato, nell’immediato, si tradusse in biglietti gratis di sola andata per qualunque destinazione e consegna di passaporti a vista presso le caserme dei Carabinieri e nei Municipi. Una iniziativa che portò 40mila emigrati in Nord Italia o all’estero, distruggendo per sempre legami e comunità che tuttora faticano a recuperare identità e radici.
Quel terremoto, di fatto, rappresenta il «precedente» drammatico al quale fare riferimento come punto più basso di tutte le esperienze di intervento postsisma in Italia dal dopoguerra in poi.
«Mai più un altro Belice» è stato ripetuto in tutte le catastrofi sismiche che hanno colpito l’Italia contemporanea.
Per l’Istituto Nazionale di Geofisica (ING) di allora, questo evento rappresentò un importante banco di prova per testare la sua attendibilità come Ente deputato al monitoraggio sismico del Paese. Le relazioni dei geofisici dell’epoca Pietro Caloi, Enrico Medi, Mario De Panfilis e Liliana Marcelli furono usate dai governanti del tempo per seguire il preoccupante sciame che durò fino all’inizio del 1969 e che diede luogo anche a importanti eventi successivi alla scossa principale, come quello del 25 gennaio 1968 che uccise quattro vigili del fuoco, mentre lavoravano tra le macerie di Gibellina.
Anche per dare il giusto risalto a questa eredità, l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) intende ricordare questo tragico evento, organizzando una serie di iniziative scientifiche e più spiccatamente sociali e culturali. In questo contesto, in questi giorni sono stati presentati i risultati conseguiti nell’ambito di un progetto finanziato dalla Struttura Terremoti dell’INGV e che ha avuto come finalità proprio l’individuazione delle faglie responsabili degli eventi del 1968 e di quelli che hanno distrutto l’antica città di Selinunte. Un modo per riflettere su quanto si è fatto da allora a oggi sia dal punto di vista dell’avanzamento tecnologico e scientifico sia da quello dell’approccio sociale sul sempre difficile tema dei terremoti nel nostro Paese.