Duecento anni fa veniva dato alle stampe "Viaggio in Italia". Nelle sue pagine Goethe descrive un Vesuvio affascinante, ma anche temibile, terribile
È il 24 febbraio 1787. Nel corso del viaggio verso Napoli, nei pressi di Gaeta, il Vesuvio si presenta a Johan Wolfgang Goethe "con un pennacchio di fumo sul cocuzzolo". Da quel momento il grande scrittore avrà la possibilità di contemplare con i propri occhi quello spettacolo straordinario che era il Vesuvio in eruzione. In realtà il primo incontro ravvicinato è con un altro vulcano, meno riconoscibile nella sua forma ribassata ma altrettanto e forse anche più pericoloso, la caldera dei Campi Flegrei. Pochi giorni dopo il suo arrivo, Goethe riesce a vedere, prima via mare poi alternando brevi passeggiate e tratti percorsi in carrozza, tutti quei fenomeni ed elementi che caratterizzano l'attività dei vulcani flegrei, e quindi "acque ribollenti, crepacci esalanti zolfo, montagne di scorie ribelli a ogni vegetazione", insieme ai ruderi delle antichità classiche. Dalla sua descrizione si deduce che ha visitato la Solfatara di Pozzuoli, e forse Monte Nuovo, Agnano, Astroni.
Le impressioni e le osservazioni raccolte dal giovane Goethe durante il suo viaggio in Italia saranno pubblicate trent'anni più tardi, a partire dal 1816. Il due marzo sale al Vesuvio. Vi arriva partendo da Resina, l'attuale Ercolano, percorrendo un tratto a dorso di mulo e proseguendo a piedi, lungo la colata del 1771 - ora non più del tutto visibile perché ricoperta da lave più recenti. Risalendo la colata, Goethe passa nei pressi della capanna dell'eremita, sul versante occidentale del vulcano. È in quest'area, sulla sommità del colle del Salvatore che, oltre cinquant'anni dopo, viene costruito l'Osservatorio Vesuviano, il primo osservatorio vulcanologico al mondo. Goethe continua l'ascesa risalendo il cono di cenere. La cima del vulcano è immersa nelle nuvole, ma riesce comunque a osservarne il cratere, colmo di lave, con al centro un conetto da cui fuoriescono abbondanti emissioni di gas vulcanici. Lo scrittore prova ad avanzare verso il conetto, ma constata che è "malsicuro l'incedere sullo sfasciume della lava eruttata" e che le emissioni fumaroliche sono talmente intense da non riuscire quasi a respirare. Mentre sosta presso il cratere non si verifica alcuna attività stromboliana, né si avvertirono boati. Quel giorno Goethe compie osservazioni geologiche che lo portarono a interrogarsi sulle cause che avevano prodotto quei fenomeni e quelle formazioni. Ad esempio, nota una cavità tra le lave, probabilmente una parte esposta di un tunnel lavico, la cui volta era tappezzata da estrusioni simili a stalattiti. Il 6 marzo, Goethe torna nuovamente sul vulcano accompagnato da un amico, il pittore Tischbein, in calesse. Giunti alla base della ripida salita e ricordando la fatica compiuta la volta precedente, decide di proseguire con l'aiuto di due guide. "Ci rimorchiarono, è la parola; poiché queste guide portano intorno alla vita una cintura di cuoio, alla quale il viaggiatore s'aggrappa e vien tirato su, con minore sforzo delle proprie gambe e con l'ausilio del bastone", afferma Goethe. In questo bizzarro - ma non per l'epoca - modo raggiunge la zona pianeggiante alla base del Gran Cono, corrispondente a quello che oggi è l'Atrio del Cavallo. Da quel punto osserva un'attività stromboliana estremamente vivace: "lo spettacolo era grandioso, esaltante". Le esplosioni si ripetevano a intervalli grossomodo regolari e provocavano il lancio di lapilli, piccoli e grandi, che ricadevano ai fianchi del cono, e la fuoriuscita di nubi di cenere.
Lo scrittore si ritrova a camminare sotto la pioggia di lapilli. Per Tischbein il vulcano non soltanto era brutto ma, alla luce di quanto stavano vivendo, anche molto pericoloso. Per Goethe, invece, il rischio pericolo rappresentava un elemento di attrazione: "la presenza del pericolo esercita sempre un certo fascino ed eccita nell'uomo lo spirito di contraddizione". Questo sentimento non è raro in molti vulcanologi, ineluttabilmente spinti ad avvicinarsi sempre più alle manifestazioni dell'attività vulcanica, come i coniugi francesi Maurice e Katia Krafft, che persero la vita durante l'eruzione del vulcano Unzen, in Giappone, nel 1991, nel filmare in diretta un flusso piroclastico. Goethe prova a risalire il cono nell'intervallo di tempo tra due esplosioni. Quasi sotto la pioggia di cenere e tra il crepitio dei lapilli, riesce in breve tempo ad arrivare sull'orlo craterico, "rimorchiato" dalla guida più giovane. Una volta giunti sulla cima, con il capo coperto da improvvisate protezioni, cappelli imbottiti di fazzoletti, la nube di gas non consente di scorgerne l'interno se non a tratti; questo indugiare fa sì che vengano colti di sorpresa dalla successiva esplosione e dalla conseguente caduta di frammenti. I due provano a ripararsi, rannicchiandosi, e per fortuna ne vengono solo sfiorati.
Una volta ridiscesi, Goethe si sofferma a osservare le lave di formazione antica e recente, le cui età venivano esattamente indicate dalla guida anziana. Attraverso l'analisi del loro aspetto - si trattava di lave cosiddette di tipo "aa", dalla superficie scabrosa e frastagliata - ne intuisce le modalità di scorrimento. Le lave di quel tipo si muovono lentamente, e questo consente la parziale solidificazione della crosta esterna, che si spezza formando massi che si accumulano gli uni sugli altri grazie al fluire della parte sottostante. Nel caotico ammasso di lave osserva blocchi di rocce di tessitura e struttura diversa da quelle in cui erano inglobate. Ne deduce che si trattava di frammenti di rocce preesistenti, di origine anche profonda. Ora è noto che queste rocce sono strappate dalle pareti del condotto o della camera magmatica durante la risalita del magma. Un'altra interessante deduzione vulcanologica di Goethe scaturisce alcuni giorni dopo, nel corso della sua visita agli scavi di Pompei, mentre osserva i depositi piroclastici che ricoprono l'antica città. Dalle caratteristiche di questo deposito comprende che questi sono caduti al suolo dopo aver volteggiato "per un certo tempo a guisa di nuvole, finché si abbatterono sulla sventurata località". Il 13 marzo 1787 Goethe annota nel suo diario: "Ho studiato bene anche i minerali vesuviani; come cambiano le cose, se viste nel loro insieme! A queste osservazioni dovrei davvero consacrare il resto della mia vita: potrei fare qualche scoperta tale da ampliare il campo delle umane conoscenze".
Alcuni giorni dopo lo scrittore tedesco viene a sapere che sul Vesuvio si era formata una colata di lava, in lento scorrimento verso Ottaviano. Questo lo induce, il 20 marzo, a salire per la terza volta sul vulcano, con le due guide che lo avevano già accompagnato. Giunge quindi in prossimità della nuova bocca, che si era aperta sul fianco settentrionale del vulcano, descrivendola con queste parole: "Il getto di lava era stretto, non più di dieci piedi in lunghezza, ma impressionante era il modo con cui scendeva per un tratto liscio e in lieve pendio; scorrendo, infatti, la lava si raffredda sui lati e alla superficie esterna, e forma un canale che si innalza sempre più, perché il materiale fuso si consolida anche sotto il torrente infocato". Goethe evidenzia come la lava scorre tra due argini formati dalle scorie laviche accumulate ai lati della colata. Dalle fessure della superficie si osserva il rossore della lava sottostante. Goethe avverte l'impulso di avvicinarsi ancora di più alla bocca eruttiva, raggiungendola da dietro. Si ferma sulle lave indurite che costituiscono il tetto della colata. Non riesce però a spingersi oltre, per il fumo soffocante e il calore crescente; la guida, che lo precede, lo afferra per un braccio e lo trascina indietro.
Sulla via del ritorno, deliziato da un "superbo tramonto" e da una "serata celestiale", non può non riflettere sui contrasti del territorio napoletano: "la terribilità contrapposta al bello, il bello alla terribilità; l'uno e l'altro si annullano a vicenda, e ne risulta un sentimento di indifferenza. I napoletani sarebbero senza dubbio diversi se non si sentissero costretti fra Dio e Satana". Nel suo secondo soggiorno a Napoli, tra maggio e giugno dello stesso anno, Goethe ha modo di osservare ancora una volta il Vesuvio in eruzione, con una colata di lava che si spinge verso il mare. Il primo giugno, dal molo di Napoli, all'imbrunire, descrive così lo spettacolo che gli si staglia davanti: "Ecco finalmente davanti a me ... la luna piena in tutta la sua magnificenza insieme alla vampa del vulcano, e questa volta anche la lava, che prima non c'era e adesso scendeva per il suo maestoso sentiero infocato". Il giorno successivo, da un appartamento della reggia di Capodimonte, ospite di una giovane duchessa residente a corte, saluta definitivamente il vulcano napoletano. "Eravamo a una finestra dell'ultimo piano, col Vesuvio proprio di fronte; il sole era tramontato da un pezzo e il fiume di lava rosseggiava vivido, mentre il fumo che l'accompagnava andava prendendo una tinta dorata; la montagna mugghiava cupa, sovrastata da una gigantesca nube immobile, le cui masse a ogni nuovo getto si squarciavano balenando e illuminandosi come corpi solidi. Di lassù fin quasi al mare correva una lingua di braci e di vapori incandescenti; e mare e terra, rocce e alberi spiccavano nella luminosità del crepuscolo, chiari, placidi, in una magica fissità. All'abbracciare tutto questo con un solo sguardo, mentre dietro il monte, quasi a suggellare la visione incantevole, sorgeva la luna piena, c'era di che trasecolare."