Newsletter n.3
Uno sguardo sul mondo della robotica: intervista ad Agnese Chiatti
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- Scritto da Francesca Pezzella
I robot sono sicuramente il futuro ma qual è il futuro dei robot? Lo abbiamo chiesto ad Agnese Chiatti, dottoranda al Knowledge Media Institute della Open University di Milton Keynes, nel Regno Unito. Agnese si occupa della creazione di robot utili alla vita dell’uomo e, ospite del nostro salotto virtuale, ha risposto alle nostre curiosità raccontandoci qualcosa sul suo percorso professionale.
Dottoressa, quando ha scelto di diventare una ricercatrice?
La mia prima esperienza relativa alla ricerca è stata durante la laurea magistrale al Politecnico di Torino quando ho avuto la possibilità di trascorrere due mesi in un’università svedese per preparare la tesi di laurea. È stata la prima volta in cui mi sono trovata ad affrontare la responsabilità e la confusione della ricerca indipendente, sì sotto la guida dei relatori e dei professori ma anche con un certo livello di autonomia. Dopo la laurea, la curiosità di intraprendere un percorso aziendale mi ha portata a lavorare per un periodo in una azienda presso un ufficio di Ricerca e Sviluppo. Questa esperienza ed il fatto che i risultati della mia tesi sono stati pubblicati e presentati in una conferenza internazionale mi hanno esposta sempre di più al mondo accademico. Così ho capito che quel tipo di percorso era più il più affine ai miei interessi. Ho deciso quindi di trasferirmi negli Stati Uniti per colmare le mie lacune informatiche, di formazione sono un ingegnere gestionale, e di continuare con il percorso di dottorato per specializzarmi sempre di più.
Qual è il risultato scientifico di cui è maggiormente orgogliosa?
Per mia indole, e anche per un discorso che riguarda la ricerca in generale, cerco sempre di migliorarmi, di trovare le limitazioni dei miei approcci scientifici e ripartire da lì. Spesso mi è capitato di scrivere un articolo e poi, riguardandolo dopo mesi, di non esserne molto soddisfatta. In questo momento il risultato scientifico di cui sono maggiormente orgogliosa è una mia recente pubblicazione, un lavoro di miglioramento del livello di intelligenza visiva dei robot: si tratta di un framework di alto livello dove comunque c'è ancora molto da fare. Per adesso è il risultato di cui vado più fiera.
I robot umanoidi sono da sempre il mito della letteratura di fantascienza. Con i suoi studi attuali possiamo dire che “ci siamo quasi”?
Questa domanda è molto interessante e mi dà l'opportunità di parlare di un tema abbastanza discusso. A livello mediatico esiste questo conflitto tra la paura verso possibili scenari apocalittici, distopici o fantascientifici e la promessa di un miglioramento in termini di Intelligenza Artificiale. In realtà la mia opinione, anche supportata da studi di altri, è che siamo abbastanza lontani da questi scenari. Un esempio in merito è quello della competizione di robotica che è stata organizzata nel dipartimento in Knowledge Media Institute nel settembre 2019. Durante questa competizione, veramente innovativa perché è stata la prima a vedere i robot integrati in un contesto di smart city e di infrastrutture dati centralizzate, i robot partecipanti dovevano svolgere una serie di prove all'interno di un centro commerciale durante gli orari di apertura. Abbiamo subito notato che la variabilità del pubblico e delle condizioni di luce nel corso della giornata, così come il fatto che i robot si dovessero cimentare con compiti abbastanza complessi come servire il caffè, hanno comportato una serie di problematiche. La mia opinione è che queste tecnologie, in particolare i robot, dove l'Intelligenza Artificiale e’ applicata a contesti reali e complessi, sono ancora limitate e hanno successo solo in scenari controllati. Stiamo ancora lavorando per dare ai robot gli strumenti per essere efficaci e affidabili prima di delegare responsabilità che potrebbero creare problemi anche dal punto di vista etico.
Il comportamento di un robot umanoide, benché programmato, l’ha mai “emozionata”?
In realtà non ho mai lavorato con robot umanoidi in senso stretto, e intendo per umanoidi non solo robot che hanno fattezze visive antropomorfe ma anche gambe al posto di ruote. L’aspetto che trovo molto interessante è che spesso c’è questo fenomeno di umanizzazione del robot anche in casi in cui questo non è affatto umanoide, ne sono un esempio i classici robot aspirapolvere a cui molte volte vengono dati nomignoli come se fossero animali domestici. Un altro aspetto interessante è legato al fatto che alcuni robot eccessivamente sviluppati e progettati per riprodurre esattamente le caratteristiche umane in realtà intimoriscono di più l'utente. Ci sono studi in questo ambito perché, paradossalmente, un robot che possiamo differenziare da noi stessi, magari più piccolo e così meno intimidatorio, ci mette maggiormente a nostro agio.
Ricorda delle persone che sono state determinanti nel suo percorso professionale?
Sicuramente la Professoressa Tania Cerquitelli che è stata la mia relatrice al Politecnico di Torino durante la magistrale. Mi ha dato l'opportunità di seguire un percorso all'estero sostenendomi a distanza e successivamente ha finanziato la presentazione dei miei risultati scientifici in una conferenza che mi ha aperto delle strade. Sono particolarmente orgogliosa del fatto che molte delle figure determinanti nel mio percorso siano state donne, veri e propri punti di riferimento per me perché sono riuscite a ricavare un loro spazio in un contesto lavorativo che trova il sesso femminile in minoranza. Alla Dottoressa Ilaria Tiddi devol'opportunità di seguire un percorso di research visiting al Knowledge Media Institute UK dove ho iniziato il dottorato. Grazie al loro supporto, oltre che a quello costante dei miei relatori (il Professor Enrico Motta e il Dottor Enrico Daga), ho potuto maturare un’identita’ sempre piu’ indipendente, come ricercatrice..
Da sempre l’uomo ha avuto timore che l’uso delle “macchine” potesse erodere i suoi spazi di lavoro. Oggi i robot sono utilizzati ordinariamente in moltissime catene industriali e, anche in medicina, sono utilizzati per lo svolgimento di attività di precisione anche molto complesse. Secondo lei determinano ancora stati di insicurezza, togliendo “umanità” ai processi produttivi o alle relazioni interpersonali?
La mia opinione è che, al contrario, i robot stiano generando nuovi spazi di lavoro. Ogni tecnologia può essere utilizzata con scopi benevoli o malevoli, ma se pensiamo all’utilizzo dei robot per scopi eticamente sostenibili vediamo che sono molte le applicazioni in ambito medico, nel settore manifatturiero e nelle missioni spaziali. Si tratta di contesti in cui sarebbe pericoloso per noi agire direttamente.
Se è vero che i robot sostituiscono le persone in determinati processi produttivi, allo stesso tempo possono liberare nuove opportunità. Un esempio è quello del Covid19: quando alcuni robot sono stati utilizzati in corsia durante l'emergenza, sono usciti articoli giornalistici che sottolineavano il fatto che alcuni pazienti si sentissero più sollevati all'idea di avere a che fare con un'interfaccia robotica, il robot con un piccolo tablet, con cui interagire, piuttosto che con infermieri completamente bardati di tute e protezioni. Nel contempo, ricorrere a robot per i monitoraggi di routine permetterebbe al personale sanitario di occuparsi di altri compiti ugualmente urgenti ed essenziali. Cio dimostra come si stiano creando situazioni in cui l'interazione con i robot puo’ beneficiare contesti in cui siamo stati costretti a mettere da parte l’interazione tra persone.
Pensa che l’uso massivo di tecnologie robotiche sempre più sofisticate comporterà nuove e diverse implicazioni etiche?
Sicuramente sì ed è importantissimo lavorare sul progresso scientifico e sull'efficienza di queste soluzioni tecnologiche prima di delegare a loro qualsiasi responsabilità. Per ogni tecnologia ci può essere un uso più o meno consono e lo spazio etico della loro applicazione è ancora in via di definizione. Non siamo arrivati al punto di poter applicare queste tecnologie a contesti reali in maniera affidabile e trasparente, ma siamo ancora a livello di test in scenari di laboratorio più o meno realistici. Quando si parla di tecnologie come il Deep Learning, utilizzate per la guida autonoma, per esempio, bisogna valutare attentamenete la trasparenza di queste soluzioni, per poter risalire alle cause delle scelte effettuate dall’algoritmo. Le implicazioni etiche vanno tenute in conto fin dalle prime fasi di progettazione del prototipo.
I robot sono sicuramente il futuro. Qual è il futuro dei robot?
Il futuro dei robot è ancora lontano, c’è tanto da fare e ci stiamo lavorando. Dal mio punto di vista l’Artificial Intelligence ha fatto passi da gigante nel riconoscere tutta una serie di pattern. Prima facevo l’esempio del Deep Learning grazie al quale siamo in grado, date determinate distribuzioni di dati, di fare predizioni. Personalmente mi occupo di visione e in questo ambito sappiamo che ci sono alcune categorie di oggetti che possono essere riconosciute dai robot dopo una fase di addestramento. Il passo successivo sarà, per questi sistemi, riuscire a interpretare grandi quantità di informazioni per superare il riconoscimento e andare verso una fase di understanding. Nel caso specifico del modo che i robot hanno di interagire visivamente con l'ambiente si tratta di riuscire a generalizzare situazioni sempre più complesse e realistiche risolvibili attraverso processi cognitivi più vicini ai nostri.
Sempre più le metropoli stanno convertendo i propri servizi attraverso l’uso di tecnologie. Dal suo osservatorio privilegiato, le smart cities saranno il futuro di tutte le città?
La digitalizzazione degli spazi cittadini è un processo già in atto in alcune città e permette di migliorare la qualità della vita monitorando ad esempio il traffico e i livelli di emissioni inquinanti in un’ottica di sostenibilità. La grande sfida, però, è quella di riuscire a integrare dati provenienti da fonti molto diverse in contesti cittadini più complessi. Come con i robot le simulazioni da laboratorio non sono paragonabili alla complessità di una intera città, ragione per cui queste tecnologie sono ancora utilizzate in contesti semplificati. Io per esempio vivo a Milton Keynes, una città inglese che si presta molto bene per i pilot di smart cities perché ha una pianta stradale a griglia. Questa struttura ha permesso alla Starship Technologies (https://www.starship.xyz/) di effettuare la consegna della spesa, di pacchi o delle lettere tramite robot che riescono a navigare e comunicare in tempo reale con un certo tipo di infrastrutture. La prossima sfida sarà quindi valutare la scalabilità di queste soluzioni in ambienti più complessi.
Sono diverse le strade per arrivare ad occuparsi di robotica. Quali studi favoriscono l’ingresso in questo mondo?
Le strade possono essere diversissime ed io ne sono un esempio perché il mio percorso non è stato affatto lineare. Ci sono diversi punti di ingresso nel mondo della robotica anche perché, a differenza di altri campi, l’Artificial Intelligence è fortemente applicativo e si presta all'approccio interdisciplinare, anzi, ne beneficia. Io ho iniziato dall'area dell’ingegneria gestionale, sono passata attraverso una serie di ambiti di specializzazione e alla fine ho sviluppato questo interesse per gli studi informatici. Ho avuto anche una breve esperienza in azienda dove ho lavorato all’ideazione di prototipi per smart cities. Dal mio punto di vista c'è molto spazio per percorsi che abbracciano diverse discipline, non solo scientifiche come l'informatica, la robotica o il controllo dell'automazione ma anche umanistiche, soprattutto per quanto riguarda l'ambito della Human Robot Interaction, o addirittura filosofiche, per le implicazioni etiche di cui parlavamo poco fa. Ecco perché c'è bisogno di persone che possano portare contributi da diversi campi.
Per concludere, quale messaggio desidera offrire ai giovani studenti italiani che vorrebbero intraprendere la sua strada?
Mi sento di dir loro che è importante mantenere la mente aperta a diversi stimoli, non bisogna sentirsi vincolati da potenziali etichette che classificano come ingegneri di serie A, B, o C oppure programmatori, insegnanti, umanisti o scienziati. I ragazzi devono coltivare la propria curiosità prendendo nota mentalmente di quelli che sono stati gli spunti e le esperienze che li hanno maggiormente appagati nel loro percorso: è unendo questa serie di “puntini” che riescono a trovare il proprio spazio. Un'altra cosa che mi preme dire è che il cammino della ricerca non è ancora particolarmente facile in Italia ed è contraddistinto da elementi di precarietà. Nell'intraprendere questa scelta è importante avere ben chiare le proprie priorità ed essere consapevoli dei sacrifici che si è disposti a fare.
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